Io mi avvicinai a lui e gli sfiorai il petto con un indice. Lui rabbrividì e retrocedette. Anche lui, adesso, temeva che potessi fargli del male.
E forse era davvero così, forse ero troppo lupo e troppo poco donna.
Gli avrei fatto del male se non mi fosse stato simpatico.
La donna contadina ritornò.
Recava con se una forma di formaggio, caciotta stagionata o pecorino moro, dalla scorza spessa, una pagnotta da un chilo e mezzo ed una collana di salsiccia. Ora si che si ragionava, finalmente aveva capito di cosa avevo bisogno. Non ci fu nemmeno l’esigenza di strappargliele di mano, me le diede quasi volentieri, capendo che avrei potuto anche cavargli gli occhi con le dita e mangiarmeli per quanta fame avevo.
September si sorprese quando iniziai a mangiare la salsiccia cruda, ma non potevo biasimarlo. Anch’io all’inizio, quando mi avevano svezzata, mi sentivo strana nel nutrirmi di carne cruda. Non sapevo come fosse possibile, ma ricordavo chiaramente l’imbarazzo che provai quando, ancora piccolissima, invece del latte mi portarono un grosso pezzo di carne sanguinolenta, dall’odore forte e quasi metallico.
Ora però era tutto molto più semplice e ci avevo anche preso gusto.
Tutti mi guardavano colpiti. I bambini non osavano fiatare in mia presenza, io invece mi ingozzavo senza neppure degnarli di uno sguardo. Con la coda dell’occhio notai che la mano destra del contadino tremava violentemente e più di una volta fece con il polso un accenno a risalire per farsi il segno della croce.
«Dio vi benedica!» Dissi allegra, una volta che ebbi finito con la carne.
Bastarono quelle parole a sciogliere l’atmosfera tesa. Mamma mia, sembrava di stare nel medioevo, dove chi non nomina Dio è malvagio, chi invece lo fa ogni tre secondi deve essere per forza buono, perché ovviamente si affida a Nostro Signore Iddio l’altissimo ecc… banda di stupidi superstiziosi. Magari secondo loro un uomo lupo non può neanche pronunciare la parola Dio.
Personalmente credo che i demoni pronuncino la parola Dio il doppio delle volte di una persona normale e, certamente, non perché credano in lui.
September prese educatamente il pane che io gli diedi e ringraziò tutta la famiglia
«Grazie mille signori. Non dimenticheremo il vostro gesto, anzi…» si frugò nell’interno della tuta grigia strappata e ne trasse un monile d’oro delle dimensioni di una piccola noce «Spero che basti a pagare quanto abbiamo preso»
«Oh cielo!» esclamò la donna bionda, visibilmente emozionata mentre accettava fra le mani quella piccola fortuna «Quali angeli vi hanno mandati in casa nostra?»
«Non preoccupatevi di quali angeli ci abbiano mandato. Siete stati generosi. Nostro Signore ha detto di dare da bere agli assetati e da mangiare agli affamati. Voi l’avete fatto e a noi non pesa di pagare i nostri debiti»
«Ma voi…»
«Non badate a ciò che siamo noi» September sorrise in quel suo modo così stranamente tenero e buffo che dovetti trattenermi dal dargli un buffetto sulla testa «Ma sappiate che il bene trionfa sempre».
Stavo per scoppiare a ridere. Il bene... cosa? Aveva detto veramente “il bene trionfa sempre”?
«Volete rimanere da noi per cena?» Domandò la donna, con gli occhioni lucidi
«Oh no, grazie, ci siamo già trattenuti troppo».
Il mio istinto di dargli un buffetto in testa si trasformò in una voglia prepotente di picchiarlo. Declinava un invito a mangiare? Ma me lo sarei mangiato io a lui se solo fosse stato appena più antipatico!
Il contadino sollevò le braccia e si alzò in piedi
«Mi dispiace che non vogliate fermarvi, ma immagino che abbiate molta strada da fare»
«Più di quanta ne immaginiate» rispose September, con aria saggia e sognante, ma anche con una strana pesantezza nello sguardo
«Ah, davvero?» mi intromisi io, acidamente.
L’uomo mi guardò come se fossi matta e September sorrise
«Davvero, sì. Entro stasera dobbiamo percorrere tutta la distanza che ci separa dal Villaggio del Sole»
«Ah» .
Non so perché, ma annuii come se fosse una risposta plausibile. Ero davvero diventata completamente matta?
Ci congedammo, o meglio, September parlò per una decina di minuti di cose che non mi interessavano come il tempo e la politica americana, gli offrirono dei vestiti (offerta che lui, e non riesco ancora oggi a capire il perché, rifiutò) e poi uscimmo alla luce del Sole.
Io iniziai a sentirmi una perdente in campo umanitario. Non ci capivo niente, ma in compenso ero forte e ne sapevo molto di più di natura. E se c’era qualcuno che poteva portare a destinazione September attraversando la natura selvaggia, quella ero io. Peccato che non sapessi neppure dell’esistenza del Villaggio del Sole. Ma che razza di nome era per un paese americano? Mi sapeva tanto di paese degli elfi. Cosa diavolo erano gli elfi, poi?
September si stiracchiò. Sentii le sue ossa scricchiolare dentro la pelle, nonostante il mio udito fosse molto peggiore di quando ero nella mia forma lupesca, era ancora migliore di quello di qualunque essere umano.
Ridacchiai nervosamente, poi serrai le labbra
«Ma chi ti ha detto di non accettare quella cena?» ringhiai
«Hey, calma, calma» September deglutì e si allontanò da me rapidamente di qualche centimetro, tenendomi d’occhio come se il mio alito lo avesse potuto sciogliere
«Si, ma chi te l’ha detto?»
«Dobbiamo davvero raggiungere quel villaggio» si giustificò lui, stringendosi nelle spalle con noncuranza
«E perché?»
«Perché mi stanno aspettando»
«Chi ti aspetta?» chiesi, quasi aggredendolo. Ero curiosa, molto più di quanto non volessi dimostrare. Volevo sapere se September era davvero un mago e se i maghi esistevano, ed avevo l’inspiegabile impressione che non c’era modo migliore per scoprirlo che intraprendere un viaggio insieme a lui.
Si sarebbe parlato a lungo del mago licantropo e della sua compagna, ne ero certa.
Lui scosse lentamente la testa
«Mi attendono molte persone, ma solo una mi sarà d’aiuto»
«Insomma, che ci vai a fare?»
«A imparare l’arte»
«Arte?»
«Si, l’arte della magia…»
«E così i maghi esistono…» commentai, forse mostrandomi fin troppo pensierosa
«Sì» lui si infilò le mani nelle tasche umide e avanzò a saltelli «Ti ho detto che il mio è un nome da mago, no? E quindi io sono un mago» dondolò su e giù sui talloni «Un mago che va a trovare il suo maestro»
«Quindi se io avessi un nome da banana, sarei una banana. E se avessi un nome da coniglio sarei un coniglio».
La mia battuta lo fece ridere e scuotere la testa
«No, certo che no!» sbottò, sorridendo «Saresti comunque un licantropo. Ma ciò non toglie che sono un mago con un nome da mago»
«Ah. Però sei un licantropo anche»
«Si, sono anche un licantropo. Però non come te»
«Ah, no?» io feci finta di offendermi e lo afferrai per le spalle, stringendogli la carne con le unghie «E come chi sei?»
«Non sono un licantropo naturale. Non sono nato così e non sono stato contagiato dal virus licantropico, se così si può definire... anche se, sai, quasi nessuno lo chiama “virus”... hmm... non è un virus, credo, ma devo studiarci...» mi spiegò lui, tentando vanamente di sottrarsi alla mia presa scivolando verso il basso, ma senza riuscire a muoversi più di tanto
«Allora come sei diventato licantropo?» chiesi io, sollevando le labbra fino a mostrare i canini aguzzi
«Sono maledetto. Mi sono auto maledetto come uno stupido, se la cosa ti interessa».
Lo lasciai andare e mi misi al suo fianco, infilando anch’io le mani in tasta con noncuranza
«Maledetto? In che senso?»
«La magia è una cosa molto pericolosa. Puoi crederci o non crederci, ma se non ci credi ti conviene non cercarla. Lei trova sempre chi la cerca e può fargli molto male»
«Non capisco…»
«Non è mai facile capire. Ecco perché ci vogliono studi approfonditi per comprendere»
«Ah. Però che c'entra la magia con il fatto che sei come me?»
«Non sono come te. La magia mi ha trasformato in licantropo. Sono un maledetto, Fury, come quello dei libri».
Libri. Ricordavo quella parola con un senso di nostalgia che non sapevo spiegarmi, qualcosa che mi penetrava nelle ossa. Sapevo cos'erano i libri e sapevo che erano una cosa buona, una cosa da amare, anche se non ricordavo minimamente perché lo ricordassi. Era una cosa un po' complicata.
«Maledetto nel senso che la magia ti costringe a trasformarti in un uomo lupo tutte le notti di luna piena?» Domandai
«Magari fosse così semplice» September alzò la testa e guardò il cielo, poi si fermò e mi guardò negli occhi, implorante «No. Io sono lupo, se così si può dire, tutte le notti».
Bene. Perlomeno non era uomo tutte le notti, era già soddisfacente.
Ci misi nemmeno mezzo secondo a calcolare tutte le possibilità di quanto mi aveva appena detto.
Quella stessa notte September si sarebbe trasformato di nuovo in quell’adorabile creatura rossiccia e morbida che ti faceva venir voglia di coccolarlo, ma che con tutta probabilità sapeva cacciare esattamente quanto un coniglio gigante. Bene. Gli avrei insegnato a cacciare.
Ridacchiai
«E questa sarebbe la tua maledizione ragazzo?»
«Sì» arrossì leggermente, ma sembrava non preoccuparsene troppo «Perché, non ti sembra abbastanza?»
«No. Mi sembra una benedizione più che una maledizione»
«Cosa?».
Io risi forte. Non mi ricordavo di avere una risata del genere, sembravo uno di quei malvagi dei cartoni animati o dei film. Non che fino a quel momento avessi mai guardato un cartone animato, ma più tardi, quando per la prima volta ne vidi uno, riuscii a riconoscere la mia risata.
Lui indietreggiò facendo finta di spaventarsi
«Mamma mia» sussurrò «Ma dove hai imparato a ridere in questo modo?»
«Sai che non me lo ricordo…»
«Sei forte, lo sai?»
«Altrimenti non sarei sopravvissuta» gli ricordai io, ma evidentemente lui alludeva ad altro
«Ma no» mi disse «Sei forte nel senso che hai un carattere particolare, un bel carattere, duro, speciale»
«Grazie, ma mai come te» scherzai
«Davvero?» i suoi occhi si illuminarono di quella strana luce della sera precedente «Davvero trovi che io sia forte?»
«Sì, sei davvero particolare. Affascinante».
Lui si portò una mano al petto e deglutì tre o quattro volte. Capii che quell’ultima piccola bugia lo aveva colpito veramente e ne dedussi che non erano in molti a fargli complimenti simili. Beh, forse non era proprio una bugia, ma di certo non mi attraeva come volevo fargli credere.
Però era vero che era forte nel senso che intendeva lui.
Corsi via su per la collina. Volevo vedere se riusciva a raggiungermi e capii che non ci sarebbe mai riuscito quando udii il suo respiro affannoso allontanarsi sempre di più invece di avvicinarsi.
Mi fermai e mi sedetti sull’erba a gambe incrociate. Lo vidi ricomparire, con il fiatone, le mani tese in avanti
«Basta, basta, basta» m'implorò «Non ce la faccio a starti dietro, non ce la faccio»
«Come mai?»
«Non sono allenato e sono stanco»
«Mangia allora. Non hai fame?»
«Sì, ho una fame da lupi» sorrise autoironicamente ed estrasse un coltellino dalla famosa tasca interna della sua tuta da ginnastica grigia, poi fece rotolare la forma di cacio che teneva sottobraccio sull’erba ed anche lui si sedette con eleganza accanto a me «Che ne dici, spuntino veloce?»
«Certo».
Mangiammo il pane ed il formaggio. Lui era straordinariamente lento nel cibarsi, mentre io… beh, io avevo fame, era plausibile che neppure un topo a digiuno riuscisse a rodere più veloce di me.
Finii di sbranare metà del cacio una mezz'oretta prima di lui e andai a farmi una passeggiata, nonostante mi seccasse un po’ di doverlo lasciare solo. Avevo la sgradevole impressione che senza di me sarebbe morto mangiato da qualche belva.
Camminai per un po’ sul prato che si perdeva a vista d'occhio e che costeggiava il bosco. C’era un ottimo odore grasso di terra e foglie umide e si vedeva che la primavera stava avanzando.
Mi concentrai per qualche istante sul canto degli uccelli. Aveva note modulate che avevo già udito decine di volte. Quante primavere avevo già passato? Non lo sapevo. E probabilmente non mi importava neppure saperlo, ciò che mi importava era che la primavera veniva ogni anno ed era sempre più bella. Forse era la mia stagione preferita, ma nemmeno di questo potevo essere sicura perché non riuscivo a ricordare esattamente cosa fossero le altre tre stagioni e non ci sarei riuscita finché non le avrei provate.
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