C’era un uomo armato. Impugnava un coltello dalla lama d’argento, impugnatura d’osso intarsiata.
Non mi soffermai sull’aspetto dell’uomo, balzai all’indietro e ringhiai.
«Ucciderò te come ho già fatto con quell’altra bestia» Strillò l'uomo armato.
Era più alto di me, sui due metri e dieci, ma era magro, slanciato, meno tozzo di chiunque altro gli fosse intorno. Vestiva di nero, sembrava una specie rara di demone. La sua espressione mi faceva impazzire di rabbia. Aveva occhi scuri come pezzi di carbone, infossati nelle orbite cerchiate da aloni scuri, capelli neri, sufficientemente corti, ma non come quelli dei contadini.
La sua pelle era olivastra, il suo volto contratto nella concentrazione, le braccia sollevate in avanti a puntare me. Non avevo tempo per studiarlo come avrei dovuto fare con qualunque avversario. La folla avanzò verso di me, le torce incandescenti sfrigolanti nel buio.
Mi lanciai contro tutti loro. Sentii il calore farsi troppo intenso. Poi le mie orecchie iniziarono a ronzare. Provai dolore, ma non sarebbe bastato a fermarmi. Iniziai ad avanzare di corsa, colpendo selvaggiamente con i pugni serrati chiunque mi venisse incontro. Non riuscii più a distinguere i volti. Sentivo solo il calore, che mi ardeva sulla pelle e mi faceva sentire in trappola.
Gridai, ruggii. Vidi la figura alta e nera dell’uomo armato venirmi incontro con calma, lentissimo.
Era come se sapesse che non avrei potuto sfuggirgli.
Mi abbassai, passai sotto le braccia della gente, continuai a colpire, loro colpivano me senza tregua, maledicendomi, maledicendo tutta la mia dinastia e la mia vita, sbraitando, strillando, inveendo come rozzi galeotti, in mille idiomi, con mille intonazioni, come una folla multispecie.
Mi raggiunse il colpo di un oggetto metallico che mi produsse una lacerazione di circa quindici centimetri sul fianco destro. Prima ancora del dolore sentii il rumore fastidioso della stoffa che si strappa. Poi il sangue che gocciolò fino a metà della mia coscia, fastidiosamente caldo.
“Stanotte, solo per una notte”
Gridai, afferrai una donna, la prima che capitava, non la guardai neppure in faccia…
“Per una notte”
Le ruppi il naso ed entrambi gli zigomi con un pugno, poi mi slanciai in avanti lasciando dietro di me, sulla terra intrisa di sangue, il suo cadavere sfigurato
“Per una notte sarò un demone…”.
Il sangue mi ricopriva lentamente. Non riuscivo più a capire se fosse mio o degli uomini. La mia mente iniziò ad annebbiarsi. Urlai, così terribilmente che il cerchio intorno a me si allentò. Udii singhiozzare e piangere di terrore. Mi eccitai.
Mi volsi verso la fonte del suono e corsi. Ero veloce, veloce come non lo ero mai stata io, grossa com’ero. Ero veloce come un lupo, anzi, di più di un lupo. Eppure erano in troppi e mi fecero del male. Mi colpirono.
Ma io colpii loro. Si infrangevano come onde, battaglioni armati, contro la mia resistenza. Sentivo le loro vite spezzarsi sotto le mie mani inondate di sangue, sentivo le mie unghie, fattesi più pesanti ed affilate, conficcarsi nelle loro carni di mortali. Ed io non ero più mortale. Perché per una notte ero un demone.
Il sangue colava e schizzava da tutte le parti, mi ci immergevo. Caldo. Dolore. Ma tutto ciò mi rendeva ebbra. E rabbiosa.
Mi abbassai per evitare un colpo di piccone che mirava alla mia testa e che passò troppo lentamente sopra di me, poi corsi verso la grossa sagoma nera dell’uomo che brandiva il pugnale d’argento.
Lui mi attendeva.
Vidi i suoi denti bianchissimi risplendere alla luce torva e sanguigna delle fiaccole.
Poi saltai. Il dolore si fece fortissimo. La gambe si fecero pesanti.
Raggiunsi l’uomo. Lui mi continuava a guardare con quel suo sguardo odioso. Si spostò di pochissimo, sollevò un braccio e mi pugnalò.
Non urlai mentre sentivo la fredda lama penetrarmi nella carne della spalla sinistra, ma le forze mi vennero meno e caddi in ginocchio, lacerandomi con il mio stesso peso il muscolo mentre il magro umano continuava a reggere l’arma con fermezza.
Vidi decine di cose che non avrebbero dovuto essere lì.
Il lupo balza. Il lupo dilania. No, la luna piena no… una giovane donna. I suoi capelli, i suoi capelli, un’onda dolce che si riversa sulle spalle, sono rossi come il mio sangue. Peli bianchi come neve, denti bianchi dai contorni levigati dall’usura, ma capaci di penetrare a fondo nella carne, sangue scarlatto. Occhi azzurri che virano di colore, venature che schiariscono, divengono gialle quelle iridi.
La distruzione di una specie, una specie che fu arsa. Umani che ridono, occhi pieni di sadico piacere.
La distruzione dei lupi, i cui corpi cadono in terra morti uno dopo l’altro, mentre il sangue scorre dai loro corpi che si fanno gelidi.
Lampi di luce rossa e gialla che mi avvolge come fiamme di una pira. Il morto che vive cammina verso di me, i suoi occhi sono vitrei, sono bianchi, sono antichi come l’oscurità della fredda terra da cui tutti proveniamo. Un lupo.
La luce delle stelle. Di nuovo la giovane, quella dai capelli rossi come il sangue. Le sue mani, due piccole mani di marmo che si tendono verso di me
“Non arrenderti lupa, non arrenderti!”.
Vidi di nuovo l’uomo magro, con più chiarezza e lucidità di quanta ne avessi mai avuta. Tutte le cose che avevo visto come in sogno sparirono di fronte ai miei occhi, lasciandomi ad affrontare la cruda, nera realtà. Non era passato che un mezzo secondo. Mi lanciai verso di lui.
Non se lo aspettava, glielo lessi in faccia. Ma i miei denti riuscirono ad affondare nella sua carne. Colpivo ovunque con il solo scopo di sentire il sapore del suo sangue. E il suo sangue sapeva di ferro e di sale, come l’acqua marina, solo era più denso e aveva una nota più dolce.
L’uomo magro gridò. La sua voce era profonda. Mi allontanò con un pugno e sfilò dal mio corpo il pugnale.
Lo guardai, vidi che gli avevo segnato il volto da sotto l’occhio alla gola, che lo avevo sfigurato con le mie zanne. Sorrisi, tutto il dolore che mi dilaniava, che mi stava uccidendo, sparì di fronte a quella soddisfazione.
Lui mi guardò ansimando a sua volta, ancora determinato a farmi a pezzi
«Questa cosa me la pagherai!» ringhiò rocamente, slanciandosi a sua volta verso di me, sollevando il coltello insanguinato.
Io mi avvinghiai a lui senza pensarci troppo, lo morsi dietro la testa con forza, premendo fino a fargli perdere i sensi. Avrei proseguito fino ad ucciderlo se non avessero cominciato a spararmi contro.
Le pallottole, contrariamente ai più comuni detti, non mi rimbalzavano affatto addosso.
La mia pelle fu forata in parecchi punti, ma i bossoli non riuscivano mai ad andare troppo a fondo, la mia carne era dura e le mie ossa salde. Per questo non si può uccidere un uomo lupo con un fucile, ma lo si può fermare, gli si può fare molto male…
Dovetti lasciare la presa sulla nuca del magro uomo vestito di nero e mi slanciai verso la foresta, correndo buffamente, con la mia povera gamba azzoppata da un paio di proiettili e un colpo di vanga.
Mi sganciarono contro i cani, grossi animali dal manto corto, incroci da combattimento.
Uno di loro mi saltò addosso. Caddi, vidi le sagome sfuocate di uomini e altri animali correre verso di me.
Mi liberai del corpo del pitbull lanciandolo via da un lato e scattai in piedi.
Sangue, sangue ricopriva completamente i miei palmi, le mie labbra, la mia gamba destra.
Mi scagliai di nuovo contro la folla inferocita. Ero in preda ad un’ira così straripante, così potente, così straordinaria, che il dolore che provavo parve piegarsi ancora una volta ed accartocciarsi timidamente sotto le sue sferzate tremende. Tutti gli uomini indietreggiarono.
I cani ebbero paura, si nascosero dietro le gambe dei loro padroni, alcuni fuggirono terrorizzati, la coda fra le zampe.
Io, il demonio, dilaniai la gola dell’umano più vicino con le unghie, squarciandogli la carne, poi passai sistematicamente a tutti gli altri, senza neppure più evitare i colpi.
I proiettili mi stavano crivellando, li sentivo dappertutto, eppure la mia testa era ancora salva se non contavo il ridicolo taglio sullo zigomo. Sentii altre urla e risi, mostrando le zanne, lasciando che tutti vedessero quanto ero terribile.
L’uomo vestito di nero era di nuovo in piedi e il suo implacabile odio brillava in quei freddi occhi scuri. Ma cos’era? Come poteva essersi rialzato? Aveva solo finto di svenire? La rabbia che mi ruggiva dentro continuò a metamorfosare fino allo stadio supremo in cui trascende l’essere e distrugge la ragione.
Allargai la braccia e mi lanciai senza timore contro l’uomo vestito di nero che, alto e magro, non si muoveva come se mi attendesse, il coltello stretto nel pugno abbandonato contro il corpo.
Il fuoco che ribolliva nelle mie vene mi spinse a quell’estremo attacco.
L’uomo magro si mosse all’indietro con lentezza e vidi un sorriso disegnarsi sulle sue labbra sottili, incurvate. Mi studiò per quel mezzo secondo, poi si lanciò contro di me.
Capii che era un professionista, dovevano essere anni che combatteva e dava la caccia a quelli come me.
Compresi che era mio il dovere di terrorizzarlo a dovere e fargli capire che un uomo non può battermi.
Ci scontrammo con violenza, il suo petto colpì il mio, le sue braccia furono spinte indietro dalle mie mani, le mie labbra cercarono il calore della sua giugulare per aprirsi e affondare i canini.
Lui riuscì a liberare dalla mia stretta la mano sinistra prima che lo mordessi e mi afferrò i capelli
«Davvero credevi di poterlo fare?» mi sussurrò ad un orecchio.
Un brivido mi risalì lungo la schiena. Uomo? Era un uomo della razza umana quello?
Qualcuno dietro di me mi colpì con una vanga. Sporco contadino vigliacco. Mi piegai contro il ventre del magro uomo vestito di nero, incapace di ragionare con più lucidità. Di nuovo il dolore mi rapiva, il sangue ritornava a far sentire il suo peso. Le dita robuste del tizio vestito di nero mi stringevano ancora i capelli, solleticandomi il cuoio capelluto.
Sentii qualcuno ordinare di uccidermi, poi la voce dell’uomo vestito di nero, ridotta ad un sibilo, che diceva che prima doveva interrogarmi. Raccolsi le energie e mi afferrai alla sua giacca per rialzarmi.
Lui mi colpì con un pugno dietro la testa e mi strinse a sé, costringendomi di nuovo a piegarmi.
Dovevo ucciderlo, dovevo ucciderlo… il suo odore, così intenso, così perfetto. Era dolce, ma aveva note metalliche, come di acciaio umido. Come di fiori e metallo fusi. Era un odore molto diverso da quello selvaggio, affumicato e ambrato di September, un odore più giovane, eppure lo avrei respirato volentieri per sempre. Mi dispiacque di doverlo coprire con l’effluvio mortifero del sangue e del fuoco, ma seppi che dovevo uccidere quell’uomo per salvarmi la pelle.
«MUORI!».
Colpii con una testata il suo mento, poi gli balzai alla gola. Sentii il rumore di ossa che battono, la sua schiena si schiantò contro il terreno e il peso del mio grosso corpo lo compresse. Sentii qualcosa di umido colarmi lungo il collo. Cercai di mordere ancora, ma tre o quattro di quegli umani ipocriti e spaventati mi attaccarono alle spalle, mi presero per le braccia e mi tirarono verso di loro.
Spinsi verso il basso, verso la gola dell’uomo magro. I suoi occhi erano ricolmi di odio, ma non di paura.
Mi girai fulmineamente e colpii con un pugno uno degli uomini che mi trattenevano, spezzandogli la mascella e lasciandolo a terra sanguinante. Gli altri mi mollarono, ma qualcuno fece ancora fuoco su di me con una pistola. Il proiettile mi sferzò la nuca e passò oltre mentre mi acquattavo per balzare.
Con gli occhi spalancati, vidi qualcosa muoversi troppo rapidamente verso la mia faccia e per un istante ebbi il timore che mi avrebbe accecata. Era un rastrello metallico, di quelli che si usano per raccogliere le foglie, e mi colpì con forza.
Gridai, lanciandomi di lato, con il fiatone, e mi portai una mano sull'occhio sinistro.
Non ci vedevo! Non ci vedevo! Eppure non sentivo il dolore di un bulbo oculare cavato, o almeno quello che credevo avrebbe dovuto esserlo. Tentai di asciugarmi e scoprii che era solo sangue che mi era finito nell'occhio: il rastrello mi aveva graffiato la parte sinistra della faccia che, come tutte le ferite al volto, sanguinava tantissimo.
«Prendetela!»
«Uccidetela!»
«Fermatela per l’amor del cielo… FERMATELA!».
Voci piene di pianto, voci che mi inseguivano. La paura che loro provavano mi rinforzava ed inebriava.
Alcuni di loro iniziarono a fuggire. Ne approfittai, mi slanciai su un paio di loro che si erano allontanati dal gruppo, laddove la pioggia incessante di colpi non poteva raggiungermi.
Mi sentii bloccare. Dita salde mi afferrarono il braccio sfregiato dai proiettili e dai colpi di attrezzi da lavoro. Le dita dell’uomo alto e vestito di nero. I suoi occhi, neri, si fissarono nei miei
«Temimi poiché è giusto che così sia» mi disse, piano, in un sibilo appena distinguibile.
Dietro di lui ardeva il rogo, le fiamme parvero farsi più minacciose solo per me, per accecarmi e per soffocarmi. Rifiutai con forza l’idea
«Io non ti temerò mai» ringhiai, convinta «Mai, servo di Satana»
«A me tu dici che sono servo di Satana?» mi chiese tranquillissimo, nonostante il sangue che scendeva copioso dagli squarci che avevo provocato sul suo volto «Allontanatevi!» ordinò alla gente, ad alta voce, come se fosse furibondo «Non avvicinatevi!».
Come agnelli obbedienti tutti indietreggiarono, lasciando un cerchio di terra insanguinata intorno a noi.
Aridità, mi venne in mente questa parola, e poi fuoco.
La mia anima bruciava di rabbia.
L’uomo continuava a non lasciarmi il braccio e a guardarmi
«Temimi, ma non fuggire da me» sussurrò, facendosi imperioso sui toni delle ultime tre parole «Non fuggire da me»
«Perché, assassino?» gli chiesi, senza neppure tentare di liberarmi dalla sua presa ridicola che avrei potuto distruggere in un batter d’occhio
«Perché puoi uscire dalla tua maledizione, puoi liberartene»
«Non porto alcuna maledizione» esclamai, indignata «Io sono donna e sono lupo, non porto alcuna maledizione con me. Non più»
«Posso liberarti» insistette, in un sibilo, avvicinando il suo volto insanguinato al mio. Il suo profumo mi stordì.
«No» Controbattei seccamente.
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