L'odio tornò a scintillare nei suoi occhi scuri
«Allora sei solo un mostro come tutti gli altri…» mi attirò a sé, ancora una volta. Ma era fissato?
Aveva una forza spaventosa per essere umano, o forse ero solo io che ero troppo stanca. Il mio sangue bagnava la terra, il mio corpo gemeva, si scioglieva nel dolore, la mia rabbia lentamente lasciava il posto alla sensazione orribile di aver fatto una scelta sbagliata. Ed irreversibile.
Sarei potuta fuggire come una mente ragionevole comandava, ma no, avevo deciso di combattere sola contro un villaggio intero. Adesso dovevo portare fino in fondo la mia decisione, eppure sapevo che ci saremmo rivisti con quel tipo alto e magro.
«Dormi» Gli sussurrai, avvicinandomi ancora di più a lui.
Ebbi la soddisfazione di sentirlo rabbrividire mentre quasi lo sfioravo sulla guancia, nel parlargli.
Poi gli diedi un pugno. Lui cadde all’indietro, con gli occhi girati verso l’interno a mostrare solo il bianco.
I cittadini mi furono tutti addosso in un istante, ma non erano guerrieri. Li feci a pezzi in un tempo brevissimo, neppure io ricordo come. Credo che quella notte avessi preso un’arma, un piccone, e abbia frantumato il cranio di tutti loro, sistematicamente, senza escludere nessuno, di nessuna taglia né di nessuna età, anche i piccoli. Colpivo, colpivo, colpivo, mi bagnavo le mani, i polsi, gli avambracci nel sangue.
Quando finalmente la mia rabbia iniziò a sbollire me ne pentii amaramente perché non avrei voluto uccidere i loro cuccioli. Non mi avevano fatto niente loro, ma non ci capivo più niente, non era colpa mia. E forse avevo fatto persino bene ad eliminarli.
Finii per allontanarmi zoppicando verso il bosco, presa dal rimorso.
Il demone che era in me ancora non dormiva.
Ma il dolore lo teneva calmo, incredibilmente calmo. Entrambe le mie gambe erano ridotte piuttosto male e quella sinistra aveva una lacerazione lunga una ventina di centimetri sul quadricipite. Il mio polpaccio destro era stato colpito da due proiettili e bruciava in maniera insopportabile, che mi costringeva a fermarmi e massaggiarlo ogni decina di metri.
C’era silenzio. Non riuscivo a percepire neppure l’odore di September, solo il sangue, dolce e ferroso, raggiungeva con il suo effluvio forte le mie narici.
Mi addentrai nel bosco arrampicandomi alla meno peggio su per la collina. Se una qualunque bestia feroce mi avesse trovata avrebbe potuto facilmente avere la meglio su di me, ero uno straccio senza più forza.
Una volta percorso un centinaio, forse più, forse meno, di metri, mi lasciai cadere sulla terra.
Mi rannicchiai contro il tronco duro e scabroso di un abete e mi venne da gridare.
Quello che avevo visto in quella notte mi avrebbe tormentata ancora per molto tempo. Non mi riferivo alla strage di uomini, mi riferivo alla morte dell’uomo lupo biondo, bruciato sul rogo, e all’alto cacciatore vestito di nero.
Sentivo solo il mio respiro, forte, mentre premevo la testa contro la terra, imbrattandola di sangue.
La mia vista era sempre più debole e per un attimo credetti che sarei morta lì sdraiata. Non sentivo come mia nessuna parte del corpo, solo la testa e il pezzo posteriore del busto. Bene, almeno avevo smesso di sentire tutto quel dolore… male, perché quando non si prova dolore, dopo una battaglia, significa che si è morti.
Almeno sarei morta con onore, ecco il lato positivo. Chiusi gli occhi, tanto tenerli aperti non mi serviva a niente, se non a farmi immaginare il cacciatore che si muoveva per venire verso di me, se non a farmi visualizzare i miei incubi.
Ero consumata, distrutta da quello scontro. Il mio fiato era sempre più corto, sempre più flebile, lo sentivo come se fossi un’altra persona, esterna, che si limitava ad osservare.
Passò molto tempo e ancora niente, il mio corpo non si decideva a morire.
Io non gli avrei dato certo una mano a sbrigarsi, la vita mi era troppo cara per decidere di separarmene di mia spontanea volontà, ma non avevo neppure paura di morire. Sarei solo tornata alla terra, poiché la morte è un viaggio. Un viaggio alquanto sgradevole, ma non per questo così orribile.
Udii un lamento lontano. No, non volevo che September mi vedesse morire…
«No, September, no, cucciolo…» mormorai.
I miei sensi si spensero. Non sentivo niente, non percepivo neppure la terra su cui giacevo.
Il gelo mi avvolse.
La morte era davvero una cosa brutta a provarsi, ma non ne avevo paura lo stesso, non avevo alcun rimpianto... No, un rimpianto ce l’avevo.
“Non portarmi via adesso, morte, ti supplico, mi stavo sbagliando, non voglio adesso, fammi fare una cosa e poi verrò, non adesso morte... mi sbagliavo, devo fare una cosa…”.
Ma la morte non mi ascoltava, non sentiva quelle parole che io le urlavo. Non potevo battermi anche con lei, ero esausta, non ce l’avrei fatta a sconfiggere anche lei...
Per un istante i miei sensi ritornarono a funzionare, instabilmente, flebilmente, ma ero ancora viva... la morte continuava a trascinarmi verso il basso, ma un pezzo di me era ancora lassù in ascolto, pur pronto a cadere anch’esso…
«Furia! Furia! No, non morire… no, no, non morire!».
Quella voce. Una luce.
La morte mi trascinò a fondo, i miei sensi si spensero di nuovo. Ma la morte aveva commesso il grave errore di farmi udire ancora una volta la voce di September.
Seppi che fuori dal mio bozzolo di oscurità era sorto il giorno.
Seppi che September mi stava guardando morire. Non avrei permesso alla morte di turbare il mio amico in questo modo così terribile. Mi ribellai.
“Indietro morte, ho ancora una cosa da fare, indietro...
Ah, non vuoi indietreggiare?
Bene, allora sarò io che fuggirò da te, e tu non ci puoi fare niente, morte…”.
Poi non ricordai più nulla, non ero nulla che esistesse. L’oblio. E non posso dire cosa significa non esistere perché chi non esiste non percepisce più nulla né pensa …
E così fu per me.
Fino a che non capii di essere ancora esistente. Ero da qualche parte nel nero e nell’incoscienza, non avevo alcuna idea di quanto tempo fosse passato, di dove mi trovassi, di cosa fossi, ma possedevo ancora un alito di vita. Passò del tempo, molto tempo, prima che riuscissi a percepire un qualsiasi stimolo esterno che non fosse la consapevolezza di esistere ancora.
Ai margini della mia mente iniziò a vibrare qualcosa. Ci misi qualche istante per comprendere che era la percezione di una voce. Non riuscii a distinguerne subito il tono, né tantomeno capii a chi apparteneva, ma ne distinsi alcune parole:
«Grave… no, non dare questo qua… sta fermo, giù le zampe…» poi la voce si allontanò.
Iniziai a percepire qualcosa sotto il mio corpo, riacquistavo sensibilità.
Contrassi le dita della mano destra. Sotto i miei polpastrelli c’era della stoffa fresca e liscia, come quella di un lenzuolo pulito. Mi sforzai di sorridere. Ero felice di essere ancora viva. Non riuscivo ad aprire gli occhi.
«Do… dove sono?» Chiesi. La voce che uscì dalle mie labbra fu quanto di più orribile avessi mai udito, flebile, una specie di insistente pigolio con note rauche.
Eppure doveva essere comprensibile perché sentii qualcuno avvicinarsi a me, prendere una delle mie mani fra le sue, piccole, calde e morbide
«Furia! Cosa senti?» mi chiese la sua voce.
Stavolta la riconobbi, era quella di September.
«Set» Accennai. Già andava meglio, la mia voce mi sembrò comprensibile anche se continuai ad odiare quel suono stridulo.
Lui mi baciò la mano, sentii le sue labbra morbide e calde posarsi sulla mia pelle gelida
«Come stai?»
«Come uno straccio. Non mi rimane un pezzetto che riesco a sentire bene... è come se non avessi più niente. Dimmi, Set, sono tutta intera?»
«Si, si, certo che sei tutta intera, tutto a posto, sul serio, niente di cui preoccuparti» era dispiaciuto che mi sentissi così male da non percepire le parti del mio corpo, la sua voce tremava debolmente «Sei qui, adesso, con me. Riposati».
«Come se potessi fare altro... non riesco a muovermi»
«Ma come hai fatto a ridurti così?»
«Ho combattuto» Risposi io. Ora ero perfettamente lucida, ma doveva essere successo qualcosa alle mie corde vocali, perché la mia voce era ancora troppo umana e acuta. Umana. No, le voci umane erano anche carine a volte, ma la mia era quella di una donna che ha paura di morire. Non era mia.
Riuscii ad aprire un po’ gli occhi. Sullo sfondo di un soffitto bianco, vidi il volto serio di September a una quarantina di centimetri dal mio, i suoi occhi verdi e acuti che mi fissavano da sotto la frangia. Aveva un po’ di barba sul volto normalmente liscio, ma era comunque cortissima, nulla che potesse far pensare che era un uomo trascurato.
Nemmeno la più terribile delle tragedie, sperai io, avrebbe potuto cambiare il piccolo mago dai capelli rossi.
Poi udii la voce inconfondibile di Paul Hersen giungere da una stanza attigua
«Che succede?»
«Si è svegliata» spiegò dolcemente September
«Davvero?» il biondo comparve accanto a me con una rapidità insospettabile. Si stava asciugando le mani con uno straccio grigio ed era a torso nudo, i muscoli delle spalle in risalto e il ventre non definito, ma comunque non cascante. Aveva il volto umido, doveva essersi appena raso la barba. Mi guardò come si guarda un quadro venuto bene, ma senza sorridermi.
Io sentii la rabbia montare
«Bastardo» gli dissi semplicemente, a bassa voce, per non far notare troppo il mio timbro mutato ed acuto.
Stavolta ridacchiò rocamente, ma era più amaro che divertito
«Plausibile» disse, cupo, poi mosse una mano verso di me e la appoggiò sulla mia fronte «Stavi crepando come un topolino che ha sfidato un leone»
«Io il leone l’ho ucciso» ribattei, con ferocia, alzando un po’ troppo la voce. Me ne pentii, ma non lo mostrai. A volte mi chiedevo quante cose stupide mi avrebbe fatto fare il mio orgoglio, poi mi rispondevo da sola che ne valeva la pena se quello stesso orgoglio mi permetteva di farmi rispettare.
Paul Hersen sollevò una delle sue sopracciglia bionde in un’espressione di perplessità
«Povero topolino» mi disse «Cosa ti è successo per impazzire così?»
«Non ti riguarda»
«Ah, non mi riguarda? Tu credi che non mi riguardi? Beh, se devo dirti come stanno le cose, mi riguarda più di quanto riguardi di te. E anche solo per gratitudine dovresti raccontarmi per filo e per segno tutto quello che hai fatto…»
«Gratitudine?» sbuffai, ma non potei ribattere ancora perché una fitta di dolore mi paralizzò.
September mi guardò come se volesse farmi capire qualcosa, con un sorrisetto nervoso
«Paul ti ha salvata, lui ti ha curata» mi confessò sottovoce «Senza di lui saresti morta adesso»
«Non ho paura della morte…» mi sentii cattiva e stupida a non ringraziare quello che si poteva considerare il mio salvatore, quindi rimediai subito «Comunque, Paul Hersen, grazie per non avermi lasciata crepare»
«Una sciocchezza» disse il biondo, stringendosi nelle spalle possenti «Sai com’è, io salvo quattro o cinque licantropi sull’orlo della morte ogni settimana»
«Però perché quella notte ci hai lasciati soli? » chiesi ancora, senza che la mia rabbia sfumasse neppure un po’ «Dì un po’, che ti era saltato in mente?»
«Sono umano» rispose Paul Hersen, malinconico, come se quello spiegasse tutto, poi si allontanò a passo leggero, senza aggiungere altro.
Era probabilmente molto stanco... non lo era quanto me, poco ma sicuro.
Alzai un braccio per guardarlo con attenzione. Era tutto pieno di croste spesse, dal colore sanguigno, e di cicatrici fresche di ferite cucite con cura, lunghe da un centimetro a tre, tranne una che partiva dal centro del dorso della mano e terminava quasi a metà avambraccio. Ero quasi impressionata, dovevo davvero ringraziare il biondo.
Paul Hersen aveva fatto proprio un ottimo lavoro, doveva averci messo ore a ricucirmi tutto.
September inclinò la testa da un lato
«Non dici niente?»
«Che ore sono?» chiesi io, guardando il sole fuori dalla finestra, che si levava alto in un cielo azzurro punteggiato in rari punti da nuvolette candide
«Che ore…» aprì la bocca, poi la richiuse ed inghiottì «Non trovi nient’altro di interessante da dirmi oltre “ che ore sono”?»
«Si, ne so un mucchio di cose interessanti da chiederti, Set, solo che da qualcosa devo pur iniziare...» mi misi seduta con un po’ di impaccio. Avevo indosso gli stessi abiti della notte in cui avevo combattuto. Stranamente non si erano danneggiati più di tanto, avevano un paio di strappi sul fianco destro, ma non erano neppure tanto larghi. Solo erano sporchi di sangue.
September si grattò la fronte all’attaccatura dei capelli, sotto la frangia.
«Bene, sono le due del pomeriggio se ti interessa» Mi rispose finalmente, riacquistando il suo consueto sorriso aperto
«Oh, bene. Cosa è successo quando mi avete trovata?»
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