ATTENZIONE: Questa versione della storia è una prima bozza. Gran parte del testo pubblicato qui su TAPAS è stato migliorato e riscritto in occasione della stampa della versione cartacea, nel 2022.
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Avrebbe lasciato la città come aveva fatto molte altre volte negli anni, proseguendo per la sua strada, se Yasha non avesse iniziato a seguire il bagliore dei fuochi fatui.
Nonostante fosse una vista ormai rara da quando era iniziata la guerra civile, Setsukyo era tinta delle tonalità vivaci del festival di benvenuto all’estate; rimbombava del rintocco sostenuto dei tamburi lungo le strade e nel legno delle costruzioni. Le strade si riempivano di movimento, le facciate delle case decorate di tessuti colorati e di lanterne sospese. Chiunque scendesse a festeggiare finiva per mescolarsi nella continua risacca di corpi e rumore sotto ai sontuosi mikoshi, le portantine del dio.
Era un sovraffollamento a cui Akari non era più avvezzo, e da cui avrebbe voluto allontanarsi il prima possibile. Eppure Yasha aveva diretto il muso vigile verso una fila di lanterne che dondolavano da alti bastoni: attraverso la carta avrebbe dovuto intuirsi il bagliore rosso del fuoco, ma le fiamme che vi danzavano all’interno si erano tinte di un freddo colore bluastro.
«Yasha, no», Akari la avvertì. Lei lo guardò, rizzando le orecchie, accennò un ululato di protesta e decise di ignorarlo. Annusò il terreno, dando inizio all’esplorazione.
Quando Yasha intercettava quel genere di traccia, Akari era certo che seguirla non avrebbe portato a nulla di buono. Eppure non poté far altro che andarle dietro, brontolando sottovoce.
La rincorse tra i vicoli, con l’arco imbracciato a tracolla. Sbucarono in una strada poco frequentata, con il frastuono dei festeggiamenti che echeggiava in lontananza. Yasha si fermò di fronte a un elegante locale a due piani. Appese all’ingresso, le lanterne che davano il benvenuto ai facoltosi clienti emettevano un bagliore violaceo. Bastò uno soffio impaziente dalla compagna perché Akari avesse conferma che stesse per succedere qualcosa di pericoloso.
Soffocata, si udiva l’irregolare vibrazione di una melodia provenire dal secondo piano. Sbuffando, Akari rimboccò con un laccio le maniche del kimono: saltò per afferrare la sporgenza della grondaia, smuovendo la catena di campanelle da cui sgocciolava la pioggia raccolta nei giorni precedenti. Si issò piantando i piedi contro la parete, con Yasha che prontamente si frapponeva tra il suo peso e il suolo. Mosse passi rapidi sulla stretta passerella di legno scricchiolante, accostandosi in equilibrio sul limitare delle finestre scorrevoli. La musica era diventata più chiara, ora: cercando di non far rumore, Akari dischiuse uno dei pannelli di carta di riso.
All’interno, tre uomini di spalle erano seduti a sorseggiare tè, affiancati da altrettante fanciulle in splendidi kimono. Tra due bracieri spenti, un uomo suonava il koto. Akari distinse il volto chino di quest’ultimo: con i plettri appuntiti legati alle dita di una mano, pizzicava le corde tese dello strumento con una concentrazione quieta. Nonostante questo, la musica incalzava, rintoccava in scale sinuose, evocava l’intensità incontenibile di una tempesta. Ascoltandola, Akari ebbe la sensazione per un momento di essere altrove – con gli occhi rivolti ai pini sempreverdi in balia dal vento e della pioggia, in attesa che piombasse il fulmine.
All’improvviso, seguendo i movimenti decisi ed eleganti di quelle mani sul koto, i bracieri si accesero ai lati del suonatore, come sotto l’effetto di un soffio violento. Gli spettatori sobbalzarono – il musicista si interruppe – e nel fumo mutevole appena sprigionato, Akari iniziò a intravedere una fisionomia imprecisa. Un naso, disegnato appena, un paio d’occhi, luminosi e ardenti, la scia frastagliata di una chioma infuocata. L'essere spalancò la bocca, mostrando un fondo di buio cremisi, un grido muto. E a strillare furono i presenti, quando, come affamato, lo videro calare sul capo del suonatore di koto, implacabile.
Akari spalancò la finestra e si issò all’interno – inginocchiato sul tatami, impugnò l’arco, incoccò una freccia e rilasciò la corda: il prezioso dardo benedetto sfrecciò tra gli occhi dello spettro di fiamme, lo diradò con un sibilo, si conficcò nella parete di legno con uno schiocco. Ma ricevendo le scintille residue dell’intruso spettrale, il legno si colorò rapidamente delle venature del fuoco. Le scintille si moltiplicarono, si gonfiarono a loro volta fino a comporre altri volti, altre espressioni angosciate, gli occhi come stoppini traballanti di candele.
«Demoni!» L’allarme terrorizzato di uno degli uomini riscosse i presenti: in preda al panico, si affrettarono all’uscita, chiamando aiuto, spalancando le porte scorrevoli. Il musicista cercò di fare altrettanto, ma i volti galleggianti lo avvolsero prima che potesse alzarsi, erigendo un muro impenetrabile di vapore e fumo. Dall’esterno, Yasha lanciò un ululato prolungato.
Nel giro di un momento la stanza fu un ribollire di lampi e scoppi che divoravano il tatami e la carta di riso. Akari si lanciò nel nugolo di fuoco che aveva inghiottito il suonatore di koto, il capo chino tra le braccia per proteggersi dal calore. Con gli occhi che lacrimavano, vide l’uomo strisciare sul tatami che anneriva, senza che le fiamme lo avessero ancora toccato. Tre spettri, teste di fuoco galleggianti, volteggiavano a mezz’aria sopra di lui, scoppiettando. Akari sfilò il pugnale che portava alla vita: si frappose tra l’uomo e i volti infuocati, li fendette in successione con un solo movimento deciso, grugnendo piano per la pelle che si ustionava.
I tre spettri si dissolsero sfrigolando, e in quello stesso istante Akari si voltò per afferrare il braccio teso dell’artista.
«Svelto!»
L’altro si lasciò sollevare senza una parola, con gli occhi spalancati sul volto cereo. Si precipitarono attraverso le fiamme, seguiti dalla scia fumosa degli abiti che intercettavano le scintille. L’edificio sembrava gridare, ripiegandosi su se stesso, crollando sotto il proprio peso – i volti infuocati sbocciavano come ombre inquiete lungo le travi che marcivano, con gli occhi fuori dalle orbite. I due discesero le scale, e Akari strattonò l’altro da parte quando il soffitto piombò a sbarrare loro il passaggio. Il suonatore di koto si aggrappò con forza al suo braccio, percorrendo i suoi stessi passi alla ricerca di un’altra via di fuga. Gli spettri non li ostacolarono quando, gettandosi con tutto il proprio peso contro la porta, Akari sfondò l’ingresso della cucina, sbucando all’ombra del rogo, sul retro. Il musicista capitombolò ansimando ai suoi piedi.
«Al fuoco!» Akari lo gridò sforzando al massimo i polmoni provati dal fumo, e il suo allarme fu ripetuto da voci tutt’attorno nel vicinato. Qualcuno doveva aver già cercato soccorsi, perché aldilà dell’edificio emersero presto le voci di chi portava l’acqua. Attesero, trafelati e impolverati, mentre l’aria si riempiva dello scrocchiare della casa da tè che bruciava e delle grida di chi cercava di contenere i danni per gli edifici vicini.
Akari pensò di essere stato fortunato, in fondo: ormai al mondo c’era molto di peggio di qualche spettro di fuoco. Non erano mai stati spiriti aggressivi, salvo diventare pericolosi quando, come era appena accaduto, sfioravano un po’ troppo combustibile dopo essersi manifestati in gruppo. Quando Yasha aveva iniziato la sua caccia, si era immaginato costretto a combattere un demone abbastanza arrogante da allontanarsi dalla propria truppa, disceso a Setsukyo per una razzia sanguinosa durante i festival stagionali.
Mentre Akari rifletteva sulla propria fortuna, il suonatore di koto si mise in ginocchio e tossì, premendo le mani contro il volto.
«È finita,» Akari provò goffamente a rassicurarlo. Trascinandosi seduto, l’altro uomo gli rivolse un’espressione funerea. Quando Akari si accovacciò per ascoltare cosa mormorava a mezza voce, le sue parole gli arrivarono roche:
«Il koto.»
«Il koto?»
«Non hai salvato il koto.» Era un rimprovero. Akari lo fissò, confuso:
«Quegli spettri vi avrebbero ferito gravemente,» constatò.
«Era uno strumento antico. Costruito da Benzaiten…» il musicista tossicchiò ancora, poi raddrizzò la schiena, e il volto sporco di cenere apparve afflitto. «Come hai potuto lasciarlo in balia delle fiamme!»
«Stavi per bruciare vivo nel rogo di un branco di spettri di fuoco,» ripeté Akari. «Non ho avuto tempo di pensare al maledetto koto.»
L’uomo pareva sconcertato da quel ragionamento. Akari preferì non aggiungere altro, considerando quel delirio un argomento chiuso anche se l’altro continuava a fissare i resti della casa da tè con evidente rimpianto. Gli spettri sembravano essersi dileguati – dal fuoco non riemergeva altro che fumo e scintille. Akari scrollò le spalle: aveva fatto ciò che poteva.
Fece per allontanarsi, quando si sentì tirare il braccio con la stessa forza con cui era stato strattonato durante la fuga. Il giovane musicista lo guardava ora in uno stato di rassegnato imbarazzo.
«Grazie,» disse.
«Non c’è di che,» tagliò corto Akari, impaziente di andarsene.
«Maestro Kyōka!»
Il richiamo provenne dal fondo della strada. Con i volti impolverati e gli ampi abiti in disordine, due uomini li raggiunsero di corsa.
«Kyōka!», affannò uno, trafelato. «Pensavamo fossi rimasto intrappolato all’interno!»
«Ci sono andato molto vicino, in effetti», annunciò il musicista, ritrovando vigore. «Ma sono stato prontamente tirato fuori da questo gentiluomo.» Sollevò una mano a mostrare Akari come se fosse un insolito ritrovamento.
Sentendo su di sé lo sguardo dei nuovi arrivati, l’impazienza di dileguarsi di Akari crebbe esponenzialmente. Gli uomini indossavano l’haori nero ricamato con lo stemma del clan della zona, i Kitai. Con la sua reputazione, Akari sapeva di dover evitare i contatti con la nobiltà a ogni costo. Purtroppo, quando sul volto sporco di stanchezza di Maestro Kyōka apparve un sorriso indecifrabile, il ronin capì che non sarebbe riuscito ad andarsene tanto facilmente. Previde il momento in cui avrebbero iniziato a ricoprirlo della loro pomposa gratitudine, e seppe di non potersi permettere d’offendere una grande casata.
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