Akari lo aveva intuito ascoltando conversazioni in giro per la residenza, pur tenendosene a distanza: i fratelli Itō, Hajime e Asuka, erano destinati a unirsi all’Onmyōdō, l’una come discepola Esorcista, l’altro in veste di suo Guardiano. Si trattava di una visita che non sarebbe durata più a lungo di qualche mese, dunque il daimyo aveva insistito affinché Hajime e Akihito si allenassero insieme con più frequenza possibile, nella speranza che le arti marziali del figlio potessero giovarne – presidiava di persona a ogni allenamento, osservando i miglioramenti o i fallimenti dell’erede con una severità che suscitava in Akari una lontana nostalgia, il ricordo di una sofferenza taciuta quando il suo mondo era stato più semplice.
Una mattina particolarmente umida, Kyōka si trascinò lungo la passerella esterna della residenza per assistere a una sessione d’allenamento di tiro con l’arco di Hajime e Akihito. Tra tutti quei nobili praticanti d’esercizio spirituale, con l’arrivo dell’umido e dell’afa Kyōka fu l’unico a farsi gradualmente svogliato e fiacco. Quando il daimyo glielo concesse, osservando il suo volto madido a cui faceva aria con un ventaglio, Kyōka si distese su di un fianco, all’ombra della tettoia.
Con Yasha che sonnecchiava al suo fianco, Akari sedette con le braccia incrociate, senza che quella calura tiepida d’estate del nord lo infastidisse davvero. Osservò i movimenti dei due giovani in silenzio, senza tuttavia riuscire a controllare le contrazioni dei muscoli del viso di fronte a imprecisioni nella tecnica o errori nella postura. A un tratto si sentì pungolare al ginocchio, e voltandosi colse Kyōka intento ad attirare la sua attenzione colpendogli fiaccamente la coscia con i piedi nudi.
«Perché non ti unisci a loro?,» propose.
La bocca di Akari si storse in una smorfia.
«Kyōka ha ragione,» intervenne il daimyo Kitai, rivolgendo al ronin un cenno incoraggiante. «Sarà sicuramente istruttivo per i ragazzi».
«Mastro Aikawa! Ci conceda l’onore!» Hajime si unì al coro. Al suo fianco, Akihito commentò con una smorfia non esattamente esaltata. Mentre Akari cercava una scusa per tirarsi indietro, non proprio impaziente di mettersi in mostra di fronte a un pubblico, Yasha iniziò a ululare con insistenza, e alla fine non gli rimase altro da fare che alzarsi e raggiungere i due giovani.
«Come desiderate,» cedette, controvoglia.
«Scende in campo l’infallibile tiratore,» annunciò Kyōka con voce teatralmente solenne e Akari gli scoccò un’occhiataccia truce che ottenne solo di farlo ridere.
Legò le maniche del kimono affinché non gli intralciassero i movimenti e impugnò l’arco d’addestramento che un inserviente gli porse. Entrò nell’area di tiro e sedette sui talloni, salutò gli altri due arcieri con un profondo inchino. Quando fu il suo turno raggiunse la postazione, divaricò le gambe e cercò la postura corretta, attese che ogni angolo del suo corpo rispondesse alla regola, che il suo respiro si stabilizzasse. Sollevò arco e freccia in un movimento fluido. Scoccò. Dopo quel primo bersaglio centrato, non sbagliò neppure un tiro.
Il pacato raccoglimento che avvolse il cortile lo immerse nei rumori del passato: il tempo trascorso con quei due ragazzi lo trasportò indietro negli anni, sotto lo scrutinio di un giudice severo, nel dojo dove si era addestrato sin dall’infanzia con i suoi fratelli. Il tendersi della corda e l’arcuarsi del legno, lo schiocco della freccia che trapassava la paglia, le brevi parole rivolte ai più giovani per correggere gli errori, secche anch’esse come la precisione di un tiro eseguito alla perfezione. Eppure, anche se agli occhi degli spettatori avrebbe potuto sembrare un maestro del kyūdō, in realtà il suo animo osservava la scena da lontano, in attesa. Akari centrava i bersagli grazie all’acutezza della mira, alla tecnica raffinata negli anni: il vero obiettivo ultimo dell’arte del tiro con l’arco, la pace interiore, era ancora irraggiungibile.
Ma si trattava di un tumulto nascosto, che aveva imparato a non far trapelare all’esterno: infatti, mentre i servitori rimuovevano le frecce per rinnovare i bersagli, entrambi i ragazzi lo guardavano ammirati.
«Quando Kyōka si vantava delle vostre capacità d’arciere, stentavo a crederci…ma ora non ho più dubbi!», Hajime aveva gli occhi che brillavano. «Potreste uccidere un demone con una sola freccia benedetta!».
«Dipende dal demone,» precisò Akari.
«Viaggiando con la nobile Chieko ho incontrato vari Cacciatori, ma nessuno di loro tirava come voi». Il giovane rise. «Siete un maestro! Vi prego di insegnarmi!».
«Nei panni d’insegnante vi deluderei,» ribatté Akari.
«È refrattario ai complimenti,» Kyōka lo canzonò dalla sua oasi d’ombra. «Non troverai arciere migliore in tutto il paese».
«Maestro Aikawa,» il nobile Akihito si intromise bruscamente nella discussione. «Giudichi chi di noi due sia più abile. Tra me e Itō».
«Non sono sicuro sia opportuno,» accennò Akari. Ma a quel punto fu il daimyo a intervenire.
«Ma sì, forza. Metteteli alla prova! Non si sa mai che mio figlio inizi finalmente a prendere l’allenamento più seriamente».
Akihito si fece livido. Rimase in silenzio, offeso, anche quando Hajime alzò con spavalderia il capo per accettare la sfida. I due ripresero posizione, l’uno al fianco dell’altro: a un cenno del daimyo, iniziarono a tirare a turno.
Hajime Itō si muoveva in maniera fluida e sincera, con autocontrollo; riusciva a calibrare i propri movimenti con una sicurezza che parlava di un addestramento lungo e appassionato, condotto con diligenza. Ora che lo osservava con attenzione, Akari riusciva a vedere il potenziale necessario a diventare, con il tempo, un ottimo guardiano per un esorcista.
Al contrario, Akihito faticava a concentrarsi. Soffriva di una mancanza di pazienza che comprometteva sia la sua postura che i suoi tiri, e che si accentuò quando dal padre iniziarono a provenire sbuffi spazientiti. Continuò ad impegnarsi e a scoccare nonostante il bersaglio di Hajime continuasse ad accogliere dardi l’uno dopo l’altro, mentre il suo disco di paglia restasse intonso.
Akari soprassedette a quella competizione con una vaga sensazione di malessere. Svanì la nostalgia che lo aveva riportato tra i membri della sua famiglia, e tornò il disagio soffocante degli allenamenti sotto lo sguardo contrariato di Masahide. Potresti fare così tanto di più, ma il tuo arco non fa che emanare odio! gridava, stanco della sua rabbia che impediva ogni tipo di ricerca spirituale.
Yasha, dal fondo della stanza, iniziò a ringhiare. I sensi di cacciatore di Akari furono subito in allarme.
La terra affollata delle frecce non andate a segno ribolliva.
Si addensò, rimescolandosi dall’interno fino a diventare cedevole, inghiottì i sostegni dei bersagli. E mentre il legno affondava, dall’inspiegabile gorgo emerse una mano scheletrica, grondante fango; artigliò la terra con tre dita dalle unghie spezzate. Seguì una testa, due orbite cave da cui sgocciolava liquido bruno, una bocca in cui facevano capolino denti marci e aguzzi.
«Indietro!», gridò Akari. L’esplosione di malevolenza emessa da uno spettro sul punto di trasformarsi in demone era palpabile perfino per lui.
Lo spettro schizzò prima che chiunque potesse reagire. Iniziò a strisciare verso di loro con un suono disgustoso d’umido, a una velocità disumana, entrambe le mani tese per arrampicarsi sul portico. Afferrò in una morsa viscida la caviglia di Hajime, lo trascinò in terra, e il piede del giovane iniziò ad affondare nella terra liquida, come in un pantano. Akari afferrò Hajime per un braccio e conficcò la spada sguainata nel cranio melmoso dell’essere. Dalla bocca deforme eruttò un fiotto gelido di fango.
Il grido che seguì fu acuto, affondò dolorosamente nei timpani dei presenti. E la presa che tentava di trascinare con sé Hajime si fece più impetuosa. Akari seppe di aver bisogno di un’altra arma, di una spada la cui benedizione esorcizzante non fosse sbiadita come quella impressa sulla propria.
«Basta!».
Il richiamo risuonò limpido e imperioso, creò un momento di stasi annullando ogni altro suono. Quando Akari batté le palpebre, nell’eco che si esauriva, l’arena di tiro era tornata silenziosa, immobile. Akihito era impietrito a breve distanza, aggrappato alle vesti del padre. Lo spettro di fango era svanito, e sul terreno non rimaneva che una scia di umido dove si era manifestato, dove aveva cercato di trascinare con sé Hajime. Era svanito senza completare la trasformazione in demone.
Akari non aveva dubbi su chi avesse gridato per fermarlo: si voltò verso Kyōka, affannando. Il musicista, in piedi, aveva ancora le labbra dischiuse.
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Parlarono dell’incidente come di un cattivo presagio, e alla nobile Chieko fu chiesto di guidare cerimonie di purificazione, mentre Asuka si prendeva cura del fratello.
Né la residenza né Setsukyo erano davvero abituate a quel genere di fenomeno, e si fece di tutto perché la storia non oltrepassasse la recinzione di casa Kitai. Akari si ritrovò al centro di un nuovo mulinello di attenzioni: lodavano il suo coraggio, la prontezza con cui si era lanciato in soccorso di Hajime e di come ancora una volta avesse scacciato il “demone”, mostrando quanto fosse stato lungimirante da parte del daimyo assoldarlo. D’altronde, grazie a lui non era stato necessario l’intervento diretto degli esorcisti. Al tempo stesso, Akari guardava Kyōka che si teneva in disparte e si interrogava sul perché nessuno avesse notato nulla.
«Sei stato tu, non è vero?» Akari gli chiese quando furono soli.
«Non so cosa pensi di aver visto, Akari,» replicò Kyōka.
«Hai ordinato allo spettro di dileguarsi. E lui ha obbedito, come se avesse ascoltato un ordine».
«Lì eri l’unico a non essere spaventato,» ribatté Kyoka con fare distratto. «Ho solo gridato e sperato che finisse. Sei stato tu a cacciarlo». Kyōka poteva concentrarsi su qualcuno con intensità penetrante, ma poi tendeva a distogliere lo sguardo, la sua attenzione afferrata da movimenti invisibili. E fu quello che fece a quel punto, anche se Akari era sicuro di ciò che insinuava, almeno con la stessa certezza con cui aveva ascoltato la propria storia ne La Ricerca.
Di una cosa non era certo, invece: se avrebbe potuto sopportare quegli atteggiamenti evasivi ancora a lungo.
La nobile Chieko si offrì di rinnovare la benedizione sulle sue armi; da quando aveva lasciato i Gatti, per Akari era diventato molto difficile trovare chi potesse applicarvi l’incantesimo che le rendeva adatte a combattere i demoni, quindi accolse l’offerta immediatamente. La donna gliele riconsegnò con gesti solenni, lasciandogli verificare il bagliore violaceo che danzava vivido sul metallo di spade e frecce.
«È un dovere di noi esorcisti supportare voi cacciatori,» fu il commento accorato della donna. Ad Akari non sfuggì come la nobile sacerdotessa serrò le labbra, come a trattenersi dell’aggiungere qualcosa, ma alla fine fu congedato senza essere riuscito a ottenere ulteriori commenti sull’accaduto.
Hajime fu tenuto sotto osservazione per alcuni giorni, in attesa che la slogatura alla caviglia guarisse: Kyōka insistette a unirsi ad Asuka per tenergli compagnia, suonando per lui con la familiarità e l’affetto di un fratello. Ma oltre alla musica, le visite al capezzale del giovane samurai erano le uniche vere attività che Kyōka ingaggiasse.
Dal giorno dell’apparizione al campo di tiro, il musicista lamentò un indebolimento legato al clima sempre più incisivo. Il daimyo Kitai rispettava questa sua indisposizione senza lamentarsi – sembrava pronto a concedergli qualsiasi cosa. Al contrario Akihito richiedeva con insistenza di essere intrattenuto in privato. Akari fu costretto a riferirgli che il Maestro musicista non si sentiva bene, o altrettante volte ad accompagnare Kyōka a incontri dai quali il musicista riemergeva sempre infiacchito e stanco. Sebbene quella del caldo sembrasse piuttosto una scusa universale per nascondere una pigrizia capricciosa, alla fine Akari fu costretto ad ammettere che Kyōka soffrisse quel tipo di temperatura in maniera più violenta rispetto a chiunque altro.
Arrivarono anche numerose richieste da parte della nobile Chieko, la quale pretendeva di condividere con lui la cerimonia del tè che le era stata promessa il giorno del suo arrivo. E se Kyōka sapeva essere flessibile nei confronti degli inviti di Akihito, quando si parlava di rimandare l’incontro con la donna diventava invece rigoroso.
«Non ho ancora trovato la risposta,» diceva ogni volta, facendosi aria con un ventaglio.
«La risposta a cosa?» chiese una sera Akari, stanco di riferire messaggi di cui non capiva il senso. Kyōka scosse semplicemente il capo:
«A una domanda che la nobile Chieko mi ha posto tempo fa».
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