L’estate era sempre stata un periodo difficile per Kyōka, sin da quando riuscisse a ricordare. E quell’anno, senza eccezione, proprio in estate non fecero che accumularsi circostanze problematiche – il caldo che rendeva il peso del corpo insopportabile, un’ennesima manifestazione di spettri attorno a lui, il ritorno della nobile Chieko, l’avvicinarsi delle celebrazioni dell’O-bon. L’onorevole Akihito.
Il giovane erede dei Kitai non era mai stato un vero e proprio problema, per Kyōka: ma dalla morte di Jimbei, Akihito aveva richiesto la sua compagnia, spesso anche solo per sfogare le proprie frustrazioni, senza fare caso a quando Kyōka potesse sentirsi anemico. L’autunno avrebbe segnato l’arrivo della sua futura sposa a Setsukyo, con le sue dame da compagnia e la sua dote. Questa realtà turbava Akihito, e quando Kyōka era costretto a tenergli compagnia, la musica che avrebbe dovuto placare la sua ansia non sempre riusciva come il musicista avrebbe voluto.
Al tempo stesso, fortunatamente Hajime si riprese in fretta dall’incidente con lo spettro. L’artista aveva ascoltato ciò che la musica aveva da dire sul giovane samurai, ed erano sempre state immagini rassicuranti, di una fermezza incrollabile. Era figlio di una famiglia samurai minore, in una cittadina che si affacciava sul mare – aveva iniziato l’addestramento da Guardiano quando Asuka si era unita all’Onmyōdō, nello stesso periodo in cui il daimyo aveva preso Kyōka sotto la propria ala protettrice. Fino ad allora, in presenza di Hajime, la musica di Kyōka si era sempre espressa in melodie serene, senza ambiguità, in un perfetto equilibrio di bianco e nero. Non era la musica piena di contraddizioni che gli era stata suggerita dalle voci che parlavano di Akari o di Akihito. E forse era soprattutto per questo che Kyōka aveva sperato che al fianco del samurai sarebbe finalmente riuscito a rilassarsi. Nella sua ingenuità, non aveva immaginato che la musica nata dal ragazzo potesse iniziare a cambiare.
«Raccontami ciò che hai visto mentre accompagnavi la nobile Chieko,» disse ad Hajime, mentre aldilà della tettoia iniziava a piovere.
Hajime esaudì la sua richiesta con una leggera esitazione, mentre Kyōka improvvisava un sottofondo musicale con lo shamisen.
I suoi resoconti raccontarono di un paese che non riusciva a trovare pace. E le voci nascoste nel rumore della pioggia suggerivano a Kyōka immagini vivide, a volte dolorose, del mondo in subbuglio che Setsukyo non aveva ancora conosciuto. Esseri deformi e mostruosi attendevano il passaggio dei viandanti in cima ai torii, con le lingue viscide penzoloni, pronti a calare sulle proprie prede dall’alto. Di notte, i vicoli delle città si riempivano di ombre, e come serpenti restavano in agguato ad ogni angolo, trascinavano gli incauti passanti in un buio da cui non riemergevano. Donne bellissime trasformavano la cascata nera dei capelli in armi che strangolavano i loro amanti, altre nascondevano sotto agli splendidi kimono corpi scheletrici ed orbite vuote. Altre ancora rapivano i neonati e si dileguavano nella notte. La gente impazziva, cadeva vittima delle malie dei demoni volpe, alcuni piombavano in un sonno dal quale nessuno riusciva a risvegliarli, altri morivano in circostanze misteriose. La signora Chieko veniva interpellata in continuazione, ma il suo operato non era mai abbastanza. E tra tutti i frammenti raccontati da Hajime, quelli sulle apparizioni del famigerato neonato Generale erano i più agghiaccianti.
«Corre voce che un Generale sia alla testa dell’Orda dell’Odokuro adesso. Un demone dalla forza inarrestabile, che nessun Esorcista dell’Onmyodō è ancora mai riuscito a placare. Alcuni pensano sia lo spirito insoddisfatto di qualche generale del passato, che continui a condurre il proprio esercito anche dopo la morte…quando si manifesta, non c’è altro da fare che ritirarsi e sperare.»
La musica di Kyōka traduceva quei racconti in melodie spezzate, spesso agonizzanti, che lo lasciavano scosso in una maniera che non avrebbe saputo nascondere in alcun modo.
Che ne è dei fuochi fatui sulla neve? Quella domanda si materializzava sullo shamisen alla fine di ogni seduta d’improvvisazione, tre note stonate che si ripetevano e non lo lasciavano andare avanti. Era successo nei tentativi di concludere La Ricerca, capitava ogni volta che la sua musica parlava dell’agonia dei vivi e dei demoni che ne erano la causa.
Kyōka aveva sigillato quell’enigma dentro di sé sin dalla partenza della signora Chieko, l’inverno prima, quando nella sua vita alla residenza Kitai erano apparse le prime crepe. Si era rifiutato di affrontare quella domanda per paura di trovare risposte che lo turbassero.
«Ti senti bene?» Hajime glielo chiedeva quando lo vedeva perso nei propri pensieri, e la stessa tesa preoccupazione proveniva dallo sguardo corrucciato di Akari, che assisteva alla scena, ogni volta, seduto e immobile in fondo alla stanza. Kyōka annuiva con un sorriso. Anche se i Kitai continuavano a distogliere lo sguardo da ciò che Kyōka non voleva che guardassero con troppa attenzione, Akari non si lasciava più ingannare. Ribattere alle sue insinuazioni divenne sempre più difficile; e sebbene Akari lo pretendesse, Kyōka non poteva rispondere con onestà a quesiti dei quali lui stesso non comprendeva a fondo il senso. Lentamente, in Kyōka si rafforzò la sensazione di aver sottovalutato i risvolti del lasciarsi affiancare da un uomo con l’addestramento di un Cacciatore.
Che ne è dei fuochi fatui sulla neve? Kyōka se lo stava chiedendo ancora una volta quando Akari cedette alla tensione che si era accumulata tra di loro. Kyōka lo sentì avvicinarsi a piedi nudi sul tatami e lo vide frapporsi tra di lui e la finestra aperta sul cortile, come a dirgli questa volta non scapperai. In lontananza, da qualche parte nella residenza si agitava lo scampanellio di un furin sospinto dal vento.
«Non ho intenzione di rimanere in silenzio mentre continui a nasconderti da me,» annunciò Akari senza mezzi termini. «Ora parleremo di ciò che è successo con lo spettro di fango».
Kyōka lo guardò di sottecchi, ostinandosi a non mettere da parte lo shamisen:
«Non sono sicuro che parlarne potrà davvero giovare al tuo compito».
«Il mio ruolo di proteggerti? Ma ne hai davvero bisogno o no?».
«Non ne ho bisogno infatti,» gli diede ragione Kyōka.
«Allora mi farete mandare via?».
Kyōka non rispose.
«Non ti fidi di me,» Akari replicò, con voce ferma.
«Non è questo».
«Mi sono fidato di te quando hai preso la mia vita e l’hai tradotta in musica senza il mio permesso. Ma tu non vuoi dirmi nulla di te, continui a proteggere i tuoi segreti». Akari era corrucciato. «Preferisci che scopra tutto alla maniera dei cacciatori?».
Kyōka non rispose. Trattarlo alla stregua di un demone, era quello che Akari voleva fare?
Dopo un momento, il samurai riprese:
«Cosa è successo l’inverno scorso?».
Kyōka percepì uno strato della propria maschera d’indifferenza staccarsi senza che potesse impedirlo:
«Non è successo nulla,» chiosò, cercando di camuffare il proprio allarme.
«È successo, invece. Qualcosa che ti ha turbato».
«È inutile rivangare il passato».
«Ti ha impedito di suonare. A te, che non hai smesso di farlo neppure dopo aver rischiato la vita».
Kyōka non replicò.
«La donna che è morta,» Akari incalzò ancora. «La amavi?».
«Questa è una domanda inopportuna,» avvertì Kyōka.
«Suonavi spesso per lei».
«Non sono cose che ti riguardino, Akari».
«Aspettava tuo figlio?».
«Non osare oltre!», Kyōka tuonò. La sua voce rimbombò nella stanza. «Non tollererò ulteriori insinuazioni sulla signorina Asami».
Yasha sollevò la testa, emise un ringhio sommesso. Akari si tese, la postura che mutava di colpo come per reagire a un attacco di spada. Kyōka non aveva mai usato quel tono con lui. Ma non fu abbastanza per intimorirlo:
«Tu comunichi con gli spiriti?», domandò.
Lo sguardo di Kyōka rimase basso, mentre la rabbia si mescolava furiosamente a un disagio soffocante:
«Taci, Akari,» lo implorò.
«Sei come la nobile Chieko? Sei stato tu a salvare Itō da quello Spettro di fango. Non io. Tu gli hai detto di andarsene, e lo spettro ha obbedito».
Kyōka ansimò.
Che ne è dei fuochi fatui sulla neve?
Per il momento poteva solo scappare.
«Akari,» scosse il capo. «Ho bisogno che tu te ne vada».
«Devo sapere se è così. Comunichi con gli spiriti?».
Kyōka gli rivolse un’occhiata tagliente, cercando di trasmettergli tutto l’astio, la rabbia che sentiva in quel momento. E davanti a quel rifiuto così netto, Akari fu costretto a ritrarsi.
«Sono stati gli spiriti a dirti di me?» aggiunse solamente, con un tono saturo di speranza che colse Kyōka impreparato. Non capiva se Akari lo stesse interrogando perché lo ritenesse un pericolo o se dietro le sue domande si celasse qualcos’altro, qualcosa di più recondito. Non riuscì a guardarlo.
«Vattene ora,» ordinò.
Akari annuì. Lo lasciò solo, e Yasha lo seguì immediatamente.
Kyōka attese che la sua mente si svuotasse. Non riusciva più a capire se quello che si agitava dentro di lui fosse rancore, paura o semplice bisogno d’essere dimenticato. O il desiderio, più incombente e assordante, di farla finita con tutto.
Con Akari non funzionava più. Non funzionava mentire, eludere la realtà, non serviva a nulla fingere di non vedere. Kyōka aveva composto La Ricerca, scavando nel suo passato, e in cambio Akari non lo aveva ucciso: peggio, aveva imparato a non farsi ingannare da lui. Quella realizzazione scosse Kyōka, innescò qualcosa di nuovo in lui. Per anni non aveva fatto altro che nascondersi, che recitare un ruolo. Ma fino a che punto avrebbe potuto spingersi, prima che anche il ronin iniziasse a vedere chiaramente il marcio?
Potresti metterli a tacere. A uno a uno. Una voce, dolce e suadente, emerse dal centro di quel disagio destabilizzante. Fu con un leggero tremore che Kyōka avvicinò la mano all’obi, sfiorando tra le dita la custodia cilindrica che teneva legata alla cintura. Sentì il bisogno di aprirla, di soppesare nel palmo il contenuto. Laccato di nero con le rifiniture in argento, il vecchio flauto traverso, l’ultimo dono di sua madre, era gelido al tocco. Inspirò profondamente, chiudendo gli occhi, e a contatto con quella superficie fredda riuscì a placare la rabbia. Ripose il flauto nella sua custodia di legno lucido, ignorando l’urgenza che sopraggiunse, di colpo, di posarvi le labbra per suonare. Era proprio quella necessità a ricordargli perché fosse necessario mentire a sé stesso.
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