Quando Akari si decise a chiedere consiglio, Asuka aveva già lasciato Setsukyo per riportare le ceneri del fratello al santuario di famiglia. La nobile Chieko lo accolse sotto al torii ligneo che dava accesso al santuario Kamidori. La notizia della morte di Hajime e Ichiyo e della partenza di Asuka aveva raggiunto la donna senza il bisogno di nessun dispaccio a cavallo. Qualsiasi dubbio in merito svanì prima ancora che Chieko parlasse, accogliendo Akari che si inchinava per salutarla.
«Finalmente ammetti di aver bisogno di consiglio, mastro Nishida,» lo rimproverò con voce ferma. «Ti ho aspettato fin troppo».
Akari finse che le sillabe del suo cognome non avessero risuonato dentro di lui come rintocchi di campane.
Fu condotto all’interno, attraversando il giardino di pietre e pini contorti, aldilà del laghetto ricoperto di nugoli di zanzare, oltre il pozzo e le fontane per la purificazione.
«Non ho potuto evitare la morte del vostro protetto,» si scusò Akari, una volta che furono seduti l’una di fronte all’altro.
«Come non ho potuto farlo io,» replicò la donna. «All’interno della città siamo impotenti come qualsiasi essere umano. E anche Asuka deve essersene accorta, o non avrebbe pensato di allontanarsene».
Akari attese che continuasse con un nodo alla gola:
«Kyōka ha innalzato una barriera protettiva sull’intera Setsukyo e non penso ne sia consapevole. Non ho mai conosciuto un esorcista in grado di comporre da solo un kekkai di tale efficienza su di un territorio così esteso. Tutto ciò che succede all’esterno non turba l’interno, ma ciò che succede all’interno è vacuo, camuffato, diventa sfocato anche agli occhi di un esorcista o un cacciatore esperto. Qualsiasi entità si celi dentro quel kekkai e stia uccidendo senza che possiamo fare niente, è irraggiungibile fino a quando non deciderà di rivelarsi».
Akari abbassò il capo. Quell’informazione spiegava così tante cose. La confusione di Asuka, i sensi distorti di Akari, i dubbi della nobile Chieko. Anche il fiuto di Yasha doveva essere diventato meno efficace, facendola guaire in quel continuo stato di nervosa cautela.
«Kyōka è un demone, non è vero?,» azzardò Akari.
«Il ragazzo non è di certo un semplice essere umano,» la voce della nobile Chieko continuò, priva di esitazioni. «Ma rifiuta con tutte le sue forze di ammetterlo a sé stesso».
«Cosa posso fare, allora?».
La donna lo soppesò a lungo, e per Akari fu come tornare sotto l’occhio critico di Masahide durante l’addestramento tra i Gatti, costretto a considerare l’uno dopo l’altro i propri limiti.
«Osserva la situazione, stai all’erta. E non appena il colpevole dovesse rivelarsi, agisci come ritieni giusto. Io lo saprò,» gli occhi vuoti sugellavano una promessa. « E se necessario accorreremo in tuo aiuto».
Ci fu una pausa prima che Chieko riprendesse, forse scorgendo in lui dettagli che Akari stesso non avrebbe mai potuto cogliere:
«Kyōka ha bisogno di qualcuno che gli stia vicino. Hai mai considerato l’idea di diventare guardiano dell’Onmyōdō? Hai l’addestramento di un cacciatore, e il ragazzo sembra fidarsi di te».
«Non si fida abbastanza da ascoltare ciò che dico,» controbatté il ronin.
« Kyōka è testardo. Ma se mai dovessi riuscire a convincerlo, portalo da me. L’ Onmyōdō lo guiderà». La sua espressione aveva assunto un cipiglio grave. «In modo che lui possa guidare tutti noi verso la pace con il mondo degli spiriti e il ristabilimento del ciclo del rinne. Una volta e per sempre».
«Pensate che potrebbe riuscirci?».
La donna sospirò:
« Potrebbe fare grandi cose. Ma fino a quando non vorrà affrontare la sua natura, il suo è tutto potenziale inutile, un intralcio a sé stesso. Il kekkai che ha innalzato istintivamente può cadere con la stessa facilità. Dobbiamo solo aspettare che accada e prepararci alle conseguenze».
Quelle parole resero Akari inquieto. Non aveva mai visto gli esorcisti dell’Onmyōdō, come nessun cacciatore dei Gatti, ammettere la propria debolezza con tale rassegnazione.
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Arrivarono i primi i giorni d’inverno. Le giornate trascorrevano in una avvilita mestizia, permeate dall’angoscia che la famiglia Kitai avesse attirato su di sé l’ira di qualche spirito, o una maledizione. Mentre Akari ancora soffriva della ferita allo sterno, nella serata che fu teatro della prima nevicata, il ronin osservava il cortile attraverso la finestra dischiusa. A un tratto, un fiocco bianco volteggiò sul tatami, all’interno. Con un movimento che gli provocò una fitta lancinante al fianco, Akari intravide una sagoma tra le fronde dell’acero spoglio.
Una donna era avvolta in un kimono bianco che sfumava elegantemente in un blu intenso, sul fondo e nell’orlo delle maniche. Nel biancore crescente che schiariva il giardino, le labbra rosse risaltavano come una macchia di sangue sul volto perfetto da maschera del teatro nō. Nel movimento sensuale di quella bocca, Akari lesse la forma del suo nome.
Yasha non era nei paraggi e avrebbe dovuto bastare quell’anomalia ad allarmarlo, ma un forte profumo di gelsomino lo investì dall’interno della stanza, dove continuavano ad entrare sporadicamente dei fiocchi di neve, risvegliando una vecchia debolezza. Voltandosi come in un sogno, trovò la donna al proprio fianco, luminosa e reale: gli occhi delineati da un trucco preciso ed elegante sembravano studiarlo, e il pallore del viso ne faceva risaltare il viola delle iridi. E il nero buio attorno.
A quel punto tutto divenne sfocato, e Akari non fu più certo se quanto accadesse fosse reale o un’allucinazione causata dal dolore alle costole. La donna si chinò su di lui, sinuosa:
«Povero guerriero solitario,» compose, il tono di voce dolce e rassicurante, pericoloso. «Sei arrivato fino a qui, soffrendo così a lungo…porgi le tue offerte alle anime dei morti, sperando ti rispondano. Ma la soluzione continua a sfuggirti, si rifiuta di darti ascolto…»
Disorientato, Akari oscillava tra lo slancio di pudore che gli suggeriva di ritrarsi e un improvviso e sconosciuto bisogno contrario. Specialmente quando lei si chinò ancora, e avvicinò lui a sé, egli sentì il proprio corpo muoversi d’istinto. Non si controllò quando lei gli passò entrambe le braccia attorno al collo. Akari ritrovò le proprie mani sui fianchi di lei, accogliendo quella stretta di consolazione come se fosse tutto ciò di cui avesse bisogno.
«Deve essere triste continuare a cercare, nonostante tutto…» Le sue labbra si premettero contro il suo orecchio nell’aggiungere «Vorresti rivedere i tuoi fratelli, non è vero?».
«Sì,» Akari lo disse di riflesso, senza riflettere. Era la verità, nuda e chiara. Sentì la donna sorridere contro il suo orecchio:
«Il musicista è un tale egoista… negarti questo tuo desiderio quando gli basterebbe così poco… così poco».
Akari percepì la mano di lei insinuarsi nell’incrocio del suo kimono, raggiungere con un movimento lento il suo petto. Il tocco era gelido ma non lo fece neppure sussultare, lo riempì solo di una totale sensazione di calma.
«Sai che lui non potrà ostinarsi a rimanere così a lungo tra gli uomini, non è vero?».
«Perché non dovrebbe?» balbettò Akari, perso. La donna sorrise:
«Perché lo ucciderà, a poco a poco… oh», gemette lei. «Da morto non potrà mai esserti utile, non è così? Ma nel mondo degli spiriti sarebbe al sicuro… non è forse tuo dovere proteggerlo?».
«Lo è,» Akari confermò. Lei annuì e le sue labbra si mossero a un soffio da quelle di Akari:
«Portalo nel mondo degli spiriti, allora».
Akari si risvegliò con un balzo. Aveva in bocca un sapore dolce, quasi nauseante. Batté le palpebre, confuso, ma nel giro di un momento l’unica cosa che fu in grado di ricordare fu di aver sognato un bacio arroventato. Quando si passò il palmo contro il petto, confuso, scoprì che le ossa non dolevano più. Yasha uggiolava all’esterno, inconsolabile.
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