Kyōka era solito indossare fermaglio che aveva ricevuto da Akihito ogni mattina. E proprio per questo Akari notò immediatamente l’assenza del dono decorato di giada.
«Dev’essermi scivolato. Sarà da qualche parte,» mormorò Kyōka tastandosi il capo, con l’aria trasognata di quando era costretto a parlare di qualcosa mentre invece pensava ad altro. Il giorno dopo, tuttavia, quello stesso fermaglio fu ritrovato affondato in tutta la sua lunghezza nella gola del daimyo Kitai.
All’alba, negli abiti sontuosi tinti di un cupo vermiglio, il nobile signore sembrava avviluppato nello stendardo abbattuto di una fazione arresa.
Vi fu un istante di stasi avvilente, mentre i servitori del daimyo si avvicinavano titubanti e stravolti al corpo. La moglie del morto si lamentava pietosamente oltre le porte scorrevoli chiuse, circondata dalle sue dame da compagnia. Le guardie del palazzo cercavano di tenerle lontane, per risparmiare loro l’orrore del sangue. Toccare la morte a quel modo non poteva che portar ulteriore sventura.
E anche se la sua prima preoccupazione avrebbe dovuto essere il corpo in cui era conficcato, l’attenzione di Akari si concentrava su quel sottile ninnolo decorato di perle e cielo trasformato in arma letale: in bilico tra una freddezza disumana e una forte angoscia, si domandava quanto tempo mancava prima che tutti smettessero di farsi impressionare dal sangue, e notassero il metodo, il mezzo e alla sua unicità.
«È la maledizione! La musica dell’artista ha colpito anche il daimyo, alla fine!».
La mano di Akari saettò a tappare la bocca della donna che aveva appena sbottato al suo fianco. La sua voce morì contro il suo palmo calloso, i suoi occhi si levarono verso di lui, confusi, acquosi, in preda al panico.
«State indietro, vi è stato detto,» ordinò brusco, spingendola via. La donna si dileguò a passi rapidi, mentre Akari tornava silenzioso e cupo.
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La famiglia del daimyo si chiuse in un silenzio addolorato. Kyōka, scoperta la notizia, fece per isolarsi ancora una volta senza far caso all’evidente urgenza con cui Akari cercava di impedirglielo.
«È stato ucciso con il fermaglio che ti ha donato Akihito,» insistette Akari. «Qualcosa non quadra in tutto questo, Kyōka».
«Lasciami solo».
«La notte in cui mi hai salvato,» Akari si impose entro la cornice della porta scorrevole, la trattenne per impedirgli di chiudergliela in faccia. «Lo spettro che mi ha quasi rotto le costole aveva un aspetto familiare. E Hajime è stato ucciso con uno stritolamento, aveva la cassa toracica spaccata. Sembra opera dello stesso spirito e non è uno spirito qualunque... Kyōka, ascoltami».
«Perché non puoi andare via e basta?».
«Riconduce tutto a te in maniera troppo ovvia! Anche se dicessi loro che non sei stato tu, troverebbero il modo di accusarti e vorranno la tua testa. Diranno che lo hai fatto perché voleva mandarti via. L’assassinio del daimyo non sembra opera di uno spirito, ma io penso che lo sia! Voglio capire cosa sta succedendo davvero».
Kyōka scosse il capo:
«Io non sono sicuro di voler capire,» lo congedò con quelle parole, riuscendo infine a mandarlo via dalla stanza.
Akari aveva ragione, lo avrebbero accusato di quell’atrocità ingrata e si sarebbero liberati di lui una volta per tutte. Sentiva il bisogno disperato di suonare ma non osò toccare lo shamisen. Mimando i gesti a mezz’aria, con gli occhi chiusi, poteva solo intonare, con un mormorio spezzato, la musica che sentiva nel suono della neve. Un motivo funebre, un lamento, e l’unica esternazione che Kyōka potesse concedersi per onorare l’uomo che aveva incarnato la sua fortuna.
Attese in silenzio che la residenza venisse a cercarlo. Quando le guardie arrivarono, a passi pesanti, il musicista stava ancora cantando a bassa voce. Sentì gli uomini discutere con Akari, nel corridoio, e quando fu chiaro che il samurai non li avrebbe fatti entrare, il plettro invisibile contro le corde immaginarie di Kyōka troncò i propri movimenti. Il musicista aprì la porta a si consegnò alle guardie, ammonendo Akari con un’occhiata che immobilizzò l’uomo lì dov’era: si lasciò condurre senza una parola al cospetto del nuovo signore.
Akihito sedeva sulla predella, dando le spalle alle pareti di legno dipinte con i lunghi colli di aironi e le acque striate d’oro di un lago. Nella stanza in cui per la prima volta Kyōka si era inginocchiato per accogliere con un profondo inchino la benevolenza del daimyo Kitai, con altrettanto rispetto sedette sui talloni, chinò il capo fino a quando la fronte non sfiorò il tatami. Sentì il peso dello sguardo di Akihito sulle proprie spalle, poi il nuovo daimyo ordinò bruscamente alle guardie di abbandonare la sala. E in un attimo furono soli.
Akihito discese dalla predella e si inginocchiò al suo fianco.
«Kyōka,» il suo tono era soffocato, un rantolo implorante. Il musicista fu costretto a raddrizzare la schiena, mantenendo gli occhi bassi.
«Mio signore,» rispose, ignorando l’atteggiamento confidenziale del giovane. «Vi porgo le mie più umili condoglianze per quanto è accaduto al daimyo vostro padre. Non so esprimere a parole quanto io stesso sia addolorato…»
«Kyōka, smettila».
«Mi pongo nelle vostre mani. Qualsiasi cosa decidiate in merito alla mia sorte, sarò pronto ad assumermene ogni responsabilità e…».
«So che non sei stato tu a uccidere mio padre!». Akihito lo interruppe. Sollevando gli occhi, Kyōka vide che il giovane Kitai era smunto, ingrigito, pareva che il tempo lo avesse calpestato per addossargli più anni di quanti non ne avesse. In una mano tremante stringeva l’arma del delitto avvolto in un drappo rosso e impuro, quel gioiello che lui stesso aveva regalato a Kyōka all’inizio dell’anno.
«Devi aiutarmi,» mormorò, la voce rotta da un singhiozzo penoso. «Non capisco cosa mi stia succedendo e sei l’unico con cui possa confidarmi…».
Kyōka lo fissò, in attesa, basito. Akihito fremette, inconsolabile:
«Io…,» deglutì. «Sono geloso. Terribilmente. Non sopporto che… Non posso sopportare che altri ti tocchino, ti parlino, che ti siano vicino. Non ho mai voluto qualcuno con altrettanta forza».
Lo sforzo immane che si manifestò in quella confessione lasciò Kyōka in bilico, e il colore livido di vergogna e angoscia di Akihito fece suonare note pericolose nel suo animo. È caduto nella trappola, mormorava la voce sotterranea, deridendo Kyōka e la sua umanità. Il tuo rifiuto lo ha fatto ammalare.
«All’inizio ho pensato fossero solo coincidenze». Akihito riprese, con sempre maggiore difficoltà, curvo e stanco di fronte al silenzio attonito di Kyōka. «Quella volta che l’anziano Jinbei ti ha lasciato uscire per conto tuo… Ero così arrabbiato con lui. La notte stessa ho sognato di andare da lui nelle stalle, di licenziarlo e insultarlo nelle maniere più disumane, al punto da farlo morire di crepacuore. Il giorno dopo lo abbiamo trovato senza vita, e pensavo di avergli portato sfortuna, per un capriccio…». Sollevò il fermaglio. «Credevo di poter fare ammenda con delle semplici scuse».
Kyōka osservò l’oggetto, distaccato, poi poggiò entrambe le mani sulle ginocchia, annuendo piano. Ascoltò quando il nobile Akihito, con tono straziante, confessò di aver sognato altre morti, notte dopo notte, svegliandosi ogni volta al mattino come in preda a una nebbiosa stanchezza. Era stato geloso di Hajime, in maniera ossessiva e imperdonabile, fino a desiderare che si ferisse, che scomparisse, che cadesse vittima di qualche disgrazia. Aveva invidiato Akari, perché era arrivato dal nulla, e si era guadagnato un posto al fianco di Kyōka a cui Akihito non avrebbe mai potuto ambire, e si era odiato per aver permesso che accadesse. Aveva guardato le moine di Ichiyo e frainteso le sue intenzioni al punto da desiderare che anche lei sparisse, e ogni suo terribile, malsano desiderio si era avverato con puntualità estrema al risveglio da sogni confusi, con la sensazione residua di un viaggio ultraterreno, lontano dalla materialità limitante del corpo.
«Temevo che mio padre ti avrebbe allontanato da me per sempre,» disse Akihito infine. «Potevo sopportare che mi respingessi, ma sapevo di non poter tollerare la tua assenza. Ho provato a convincere mio padre, l’ho implorato di non mandarti via, ma lui non ha voluto ascoltarmi. Mi ha detto di crescere, di accettare il mio ruolo una volta per tutte, di obbedire». Akihito ingoiò un rantolo e si accasciò su sé stesso, fino a quando la sua fronte non si poggiò, pesante, contro la coscia di Kyōka. «Volevo che sapesse che il legame che ci lega non poteva essere reciso così facilmente, volevo che capisse che non posso vivere senza la tua presenza al mio fianco. Ho sognato di portargli questo fermaglio, un simbolo di quanto tu sia importante per me. Ho sognato di usarlo per ucciderlo».
Le parole di Akihito si spensero in un singhiozzare penoso, come di un bambino abbandonato a sé stesso.
«Kyōka…ti prego,» il giovane daimyo mormorò con un filo di voce, il volto bagnato, afferrando una delle maniche del musicista. «Liberami da questo tormento».
Avevi ragione. È tutta colpa tua, la voce dal profondo, sardonica, diede a Kyōka la conferma inequivocabile a ogni suo nefasto presentimento.
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Quando le guardie lo raggiunsero nuovamente per comunicargli che i suoi servigi non erano più graditi, Akari non diede importanza a quel congedo neppure per un momento.
«Che ne è di Maestro Kyōka?», domandò, teso.
«Il daimyo non vuole che gli si avvicini più nessuno,» gli fu risposto. «Ti basti sapere questo e vattene».
«Verrà punito?».
I due uomini esitarono un momento. Si guardarono, e tra di loro parve viaggiare un lampo di spaventato dubbio.
«Non è stato lui a uccidere il daimyo,» insistette Akari, riempiendo il silenzio, ma uno dei due uomini fu rapido a contraddirlo:
«Il nobile Akihito lo ha scagionato da quell’accusa».
Akari rimase attonito per un momento. Qualcosa non andava.
«Voglio parlargli,» riprese, aspro, e al diniego deciso dei due uomini, il suo tono si fece più urgente. «Dite al Maestro Kyōka che me ne andrò solo dopo che lo avrò visto».
«Non ti è permesso».
«Perché?».
«Il Maestro non vuole vedere nessuno».
Stupido testardo.
Akari si rinchiuse in un silenzio falsamente rassegnato, affinché i samurai credessero che avesse ceduto. Raccolse le sue poche cose, si legò l’arco alle spalle e si lasciò condurre fino all’ingresso della villa, senza una parola o un saluto. Lì fischiò per richiamare Yasha e l’animale lo raggiunse all’instante, correndo dal cortile. Oltrepassò il cancello e dall’esterno lo osservò chiudersi.
Il sole stava calando verso occidente, attraversando una coltre di nuvole che preannunciava una pesante nevicata. Akari girò attorno al muro di cinta della villa, dove sapeva che il perimetro sarebbe stato meno sorvegliato. Legò il furoshiki che conteneva i suoi pochi averi al collo di Yasha e si lasciò addosso solo un tantō, rinunciando per il momento anche ad arco e faretra, che affidò con le spade alla custodia della compagna. Lei sbuffò e si dileguò tra i vicoli della città. Lo avrebbe aspettato.
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