Il fischio con cui Akari richiamava Yasha emerse rapido nel fragore confuso degli zoccoli al galoppo. Kyōka si chinò sul collo della bestia, con le nocche che sbiancavano attorno alle briglie di cuoio duro. Di colpo gli parve di essere ancora una volta un bambino, in groppa a un animale che sapeva a malapena condurre, in fuga da una realtà stabile verso un mondo consumato e distorto dalla violenza. Trasse il coraggio di cui aveva bisogno dalle grida d’incitamento che Akari lanciava alle sue spalle, anche quando vi si sovrappose il frastuono di altri cavalli in lontananza, lo scoccare dei frustini e le urla degli uomini mandati da Akihito all’inseguimento.
La fuga sollevava zolle di fango rappreso e neve, il freddo sempre più intenso gli sferzava il volto impallidito, e tutt’intorno la città veniva svegliata dagli spettri. I samurai li avrebbero raggiunti presto, Kyōka realizzò, lasciando che il suo cavallo corresse tra le anse delle strade gremite di spiriti tremolanti, sbandando, sbuffando dalle froge. A breve distanza, Yasha correva come una freccia impazzita. Al suo fianco, Kyōka colse i movimenti esperti con cui Akari impugnò l’arco, reggendosi in sella con la sicurezza dell’esperienza. La luce guizzante delle lampade a olio delineò il movimento rapido del braccio che sfilava il dardo dalla faretra, lo incoccava con una fluidità d’acqua, e il corpo che si torceva verso gli inseguitori. Distogliendo lo sguardo, Kyōka sentì solo lo scocco sibilante della freccia, il frullare dell’aria contro le orecchie, i nitriti dei cavalli che inciampavano.
Potresti aiutarlo, un bisbiglio lo tentava di nuovo, alimentandosi della sua paura. Kyōka lo ricacciò indietro, cercando di ignorare il gelo che lo mordeva, gonfiando le maniche ampie.
Poi un sibilo, uno schianto e il cavallo di Akari crollò, travolgendo il proprio cavaliere al suolo.
«No!» Kyōka si sporse, quasi si sbilanciò seguendo i movimenti del ronin quando lo vide rotolare, rialzarsi, voltarsi verso i dieci inseguitori. Potresti aiutarlo! L’inverno lo gridò nelle sue orecchie, ma Kyōka si aggrappò alle parole che Akari gridò nel chiasso:
«Non fermarti!».
Continuò a galoppare.
Oltrepassò da solo le porte della città, appena aperte per l’alba, ignorando le grida della gente sorpresa dall’apparizione degli spiriti. Raggiunse il fiume, il ruscello ghiacciato coronato dal basso ponte su cui in primavera aveva ammirato i petali dei ciliegi sfioriti. E fu allora che sentì un nuovo sibilo, l’ultimo.
Sfiorata da un dardo, Coccinella scivolò su di uno strato di ghiaccio e trascinò Kyōka con sé nella neve. Un dolore atroce lo trafisse alla gamba, schiacciata tra il ventre dell’animale e il letto duro e scivoloso del suolo. Lottò per liberarsi, strisciando, con i lembi dell’abito che gli impedivano i movimenti, e alzando gli occhi vide chiaramente la sagoma del suo inseguitore raggiungerlo in groppa al proprio animale, smontare ed estrarre la lama.
Il terrore di Kyōka si mescolò alla certezza che l’uomo lo avrebbe ucciso, lo avrebbe lasciato a morire nella neve: nella furia dell’inseguimento e nella follia che era seguita all’apparizione improvvisa degli spettri, alla guardia non interessava più riportarlo indietro vivo. Vide gli occhi feroci, la bocca deformata in una maschera di puro odio quando gridò:
«Sei un mostro! Muori! Demone!».
Uccidilo! L’inverno lo gridò nelle orecchie di Kyōka con la forza di un tuono; non voglio, Kyōka disse a sé stesso con la stessa forza con cui sapeva di voler sopravvivere. Sollevò un braccio, bruscamente, intercettando il movimento dell’uomo prima che potesse colpire. Inciamparono, trascinandosi l’un l’altro contro la superficie nodosa di una radice d’albero scoperta. Kyōka si sentì afferrare la testa, gli furono tirati i capelli per immobilizzarlo. Scalciò, colpì il polso dell’uomo e deviò il nuovo fendente contro il tronco dell’albero, dove il metallo si incastrò a fondo.
Poi una mano rugosa gli si avvolse attorno alla gola, strinse, gli negò il respiro. Fu quando la vista iniziò ad annebbiarsi che Kyōka raggiunse a tentoni le pieghe dell’obi. Afferrò il coltello di Akari e lo affondò con tutte le proprie forze nel torace del suo aggressore. Affondò una volta, poi due, e in un attimo il gelo che lo circondava si fece rosso e bollente, palpitante, un fiotto di vita che si spegneva impregnandogli la stoffa del kimono.
Quando l’aria tornò a poco a poco nei polmoni, la realtà rifluì in lui in un’ondata di malessere intenso. Scostò faticosamente le membra molli dell’uomo e il bianco della neve attorno a lui sbocciò di fiori cremisi. Resistere all’inverno non era servito.
Kyōka era vivo. E aveva ucciso.
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