Sbalzato da cavallo tra le ombre vaganti degli spettri e le grida dei cittadini nel panico, Akari non poté che ricordare i campi di battaglia che aveva calcato dieci anni prima. Mandò il primo uomo a terra ferendo il fianco del suo cavallo – lo vide capitolare e spezzarsi il collo, poi deviò la traiettoria di una naginata sul lato opposto, sollevando l’arma a difesa della testa. La guardia, un giovane ben addestrato con cui aveva scambiato qualche parola nei mesi scorsi, si avventò su di lui con un nuovo affondo. Akari evitò la lama con movimenti secchi, precisi, poi intercettò con la katana le ali arcuate della punta di lancia – uno schiocco metallico violento – e con uno strattone riuscì a strapparla di mano all’avversario. Afferrò la caviglia del cavaliere mentre il ragazzo cercava di estrarre la spada, lo trascinò giù dalla sella e gli assestò un colpo deciso alla testa, tramortendolo.
Fece appena in tempo a notare Yasha che con le fauci scoperte faceva impennare un altro cavallo, disarcionando un terzo cavaliere. Sentì il galoppare rapido di un quarto cavaliere superarlo, proseguire lungo la strada e sfrecciare all’inseguimento di Kyōka. Prima che potesse fare qualsiasi cosa per fermarlo, fu attaccato con le spade da tre uomini appiedati.
Il resto accadde in uno scambio di scherma frenetico. Gli uomini dei Kitai si batterono con una violenza senza scrupoli, mirata a uccidere. Akari si mosse con certezza impietosa: affrontò quegli uomini con la loro stessa ferocia. Yasha balzò alla gola di uno degli uomini, liberando il fianco destro di Akari, e la lama del samurai disegnò un arco rosso nel fianco di un secondo. Il ronin ruotò su se stesso, piantò i piedi nel terreno, deviò di lato un fendente che gli ferì di striscio il volto, sulla guancia. Reagì fulmineo, abbattendo la katana sull’avversario con un slancio che gli tagliò la gola.
Lo scontro lasciò Akari con il respiro mozzo e Yasha con il pelo macchiato di rosso. Le strade di Setsukyo erano contaminate dopo anni di quiete: ignorando il caos creato dagli spettri turbati dall’odore del sangue, Akari afferrò le briglie di uno dei cavalli abbandonati. Balzò in groppa e si lanciò condurre dal fiuto di Yasha, oltre i confini della città. Come aveva temuto, anche se per lui la differenza era infinitesimale, non riusciva più a percepire il kekkai di Kyōka.
Attraversarono il ponte, poi Yasha si arrestò bruscamente, abbassò il muso contro il terreno e iniziò ad ispezionare la zona, la neve scossa e le orme lasciate dagli zoccoli dei cavalli. Trovarono Coccinella riversa nella neve, il manto punteggiato di bianco e il ventre che si alzava e abbassava piano, poi un cavallo senza cavaliere, che cercava qualche filo d’erba superstite sotto la nevicata. Akari individuò il corpo esanime del soldato, una sua mano tesa e irrigidita dal freddo.
Smontò da cavallo e seguì la compagna nel folto della foresta. Raggiunsero Kyōka: riverso contro un’ampia pietra ricoperta di muschio, emetteva deboli sbuffi di vapore con il respiro. Aveva gli abiti scuriti di sangue, induriti contro il petto.
«Mi hai trovato,» disse solamente, mentre Yasha lo raggiungeva e gli annusava il volto.
«Sarebbe stato difficile il contrario,» mormorò Akari, accovacciandosi al suo fianco. «Sei ferito?».
«Ho battuto la gamba cadendo da cavallo,» ammise Kyōka con una smorfia. Senza aspettare il permesso, Akari sollevò il tessuto dell’hakama là dove il musicista premeva una mano sul dolore. Osservò la contusione, la esaminò premendo la zona arrossata con le dita, e la ricoprì subito con fare sbrigativo:
« Non è niente, passerà con un po’ di pazienza. Dobbiamo fare in fretta. I demoni sentono l’odore del sangue».
«Accorreranno a Setsukyo.» Kyōka suggerì quell’interpretazione come se non fosse scontata.
«La città non è più protetta. Temo che la manifestazione degli spiriti per le strade ne sia la prova».
Kyōka sospirò piano, reclinando la testa contro il masso ghiacciato. Akari lo osservò in silenzio, attendendo per qualche motivo che ammettesse la verità: di aver protetto Setsukyo con la sua musica, di essere una benedizione e non il contrario.
«Ho ucciso un uomo,» il musicista disse a bassa voce, come a confutare la tesi di Akari prima ancora che potesse offrirgliela. «Con queste stesse mani con cui ho sempre desiderato solo suonare…»
«Ti sei difeso.» Il ronin gli porse un braccio per aiutarlo ad alzarsi. «Andiamo. Non fare movimenti bruschi».
Quando si decise ad aggrapparsi a lui, Kyōka barcollò, zoppicando appena, poi accettò di montare sul cavallo mentre Akari lo conduceva a piedi, affiancato da Yasha. Kyōka tirò le redini quando raggiunsero Coccinella, e Akari si chinò su di lei: scoprì che si era rotta entrambi i garretti anteriori, agonizzava con le lunghe ciglia ornate di fiocchi di neve. Akari premette dolcemente il palmo contro il battito agitato che le scuoteva il ventre e la uccise con un affondo deciso della spada. Dovevano arrivare al tempio di Kamidori al più presto, sperare che la situazione in città non degenerasse, che la nobile Chieko potesse aiutarli.
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Il freddo aveva spogliato gli alberi di ciliegio ai piedi della collina, e là dove la primavera portava uno spettacolo rosato, la neve vestiva solo tronchi scheletrici. Kyōka cavalcava cupo, Akari riconosceva nella foresta pericoli che non erano stati lì l’ultima volta che l’aveva visitata. Yasha si fece irrequieta quando imboccarono il sentiero che si inerpicava fino al complesso del santuario.
Quando raggiunsero il tempio, il freddo dell’inverno li investì con violenza. Uno scoppio fragoroso li spinse indietro, una bufera innaturale e improvvisa che sollevò la neve da terra e riempì l’aria di una foschia fitta. Il cavallo si impennò, disarcionò Kyōka e fuggì al galoppo verso valle. Akari si chinò sul musicista mentre il vento gelido li sferzava incessante, lo aiutò a rialzarsi. Il freddo penetrava oltre il tessuto del kimono, si conficcava fino alle ossa.
Tutto tornò immobile, silenzioso. L’ampio cortile del tempio era deserto, il legno delle costruzioni pareva marcito, come carboni appena arsi. Poi Yasha iniziò a ringhiare al loro fianco. Akari fu investito da un’aura demoniaca soffocante.
Dall’ingresso vuoto del tempio emerse una figura possente, avvolta in un’armatura di scaglie che rilucevano nella nebbia come il dorso di un rettile. Mosse un passo, e il suo peso spezzò le scale di legno. Da sotto l’imponente copricapo, lampeggiavano gelidi solo gli occhi.
Erano al cospetto del Generale dell’Orda.
Vi fu un momento di stasi asfissiante, durante il quale nessuno di loro si mosse, mentre Yasha latrava, fuori di sé. Akari fissò la creatura, immobilizzato sul posto in un connubio di allarme e angoscia: nella smorfia disumana plasmata da quell’elmo scorticato e rugginoso, rivide l’ombra che aveva condannato la sua famiglia – anche se i colori erano diversi, non avrebbe potuto dimenticare le insegne militari del daimyo Matsudaira. Poi il Generale sollevò una mano, e fumando dalle giunture dell’armatura distese un dito corazzato verso Kyōka. Akari afferrò l’arco e strappò dalla faretra una freccia benedetta, mirò, scoccò in un movimento fulmineo.
Ripeté gesti compiuti dieci anni prima, identici. Il dardo si conficcò con uno schiocco sotto il copri-mascella. Il demone prese a sgretolarsi attorno alla freccia. I lampi degli occhi furono gli ultimi a dissolversi: brillando, scrutarono i due uomini con la promessa di un ritorno imminente. Non era demone che una semplice freccia benedetta potesse sconfiggere.
A quel punto, come dimentico del dolore alla gamba, Kyōka si precipitò all’interno senza dire nulla, seguendo le orme rapide che Yasha imprimeva nello spesso strato di neve.
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