Nel lontano - ma neanche troppo - 2004, in una fresca sera di fine estate, una giovane donna sollevò lo sguardo dal libro che stava leggendo. Erano le dieci, suo marito ci stava mettendo molto a comprare il latte. In realtà, quella era stata davvero strana come scusa, visto che l'unico a consumare del latte era il bambino che stava dormendo nella culla accanto a lei. Soprattutto perché, quello stesso bambino, aveva appena una settimana e lei lo stava ancora allattando al seno. Forse era il caso di andare a controllare che fosse realmente passato dal minimarket vicino casa, giusto per sapere se l'indomani mattina avrebbe dovuto preparare il caffè. Era da molto tempo che le cose non andavano, l'unico motivo per il quale erano rimasti insieme era stato quel bambino. Fosse stato per lei ne avrebbe fatto a meno, ma suo marito aveva insistito tanto. Sbuffò e si rimise in piedi con un'imprecazione, pensando che, se davvero se n'era andato, avrebbe potuto portare con sé anche la sua prole. Non era fatta per fare la madre, tanto quanto lui non era fatto per fare il marito, lo sapevano entrambi.
Si diresse verso l'appendiabiti e prese una giacca leggera, infilò gli stivaletti e tornò indietro per prendere in braccio il bambino, avvolgendolo malamente nella copertina. Era una pessima madre, ma sapeva anche lei di non poterlo lasciare da solo in casa, non voleva che cominciasse a piangere e che qualche vicino chiamasse gli assistenti sociali, sarebbe stata una seccatura. Spense la luce con il gomito, spinse la maniglia con una mossa strategica e uscì, dando un calcio alla porta per richiuderla. Non si diede pensiero di girare la chiave nella toppa, in casa non c'era niente da rubare, anzi! Se anche fosse entrato un ladro, con molta probabilità avrebbe lasciato qualche banconota sul tavolo.
L'aria era davvero fresca e piacevole, era un peccato non potersi fermare ad apprezzarla, magari sedendosi su una panchina. Il minimarket distava solo un centinaio di metri dal palazzo in cui vivevano, poteva vederne benissimo l'insegna verde, rossa e azzurra. Un simile pugno in un occhio illuminato al neon era difficile che passasse inosservato, soprattutto al buio. Attraversò la strada e percorse il marciapiede, passando di fronte ad un piccolo parco nel quale di giorno si riunivano i ragazzi del quartiere e di notte si ritrovavano degli spacciatori di poco conto. L'unica volta in cui aveva comprato qualcosa da loro, aveva passato una nottataccia e si era risvegliata nella vasca da bagno dell'appartamento disabitato del terzo piano. I vestiti erano a posto, ma puzzavano come se si fosse rotolata nel banco di una pescheria e non aveva mai capito come fosse stato possibile. Naturalmente, non aveva più comprato nulla da quei tipi.
Raggiunta l'entrata del minimarket, attraversò la porta scorrevole e la semioscurità dell'esterno venne sostituita dalle luci bianche e accecanti dei neon appesi al soffitto. Detestava quel posto e detestava il proprietario, un piccolo uomo irsuto e piacione, magro come un chiodo e gradevole come una birra inacidita. Vagò con lo sguardo tra gli scaffali e verso il bancone, vedendolo emergere poco dopo da dietro un cumulo di scatole di cartone. «Hai visto il tuo amico?» gli chiese, senza troppe cerimonie.
L'uomo fu sorpreso di vederla, ma il suo stupore scomparve subito dietro un sorriso bieco. Si guardò intorno, sollevando le grosse sopracciglia per enfatizzare il suo gesto. «Non mi pare che sia qui» rispose.
«C'è stato prima che arrivassi io?» chiese ancora lei.
«Te lo sei perso?» la prese in giro. Era decisamente un no.
Sbuffò e decise di non rispondere alle provocazioni, ci avrebbe pensato il giorno dopo, quando sarebbe stata più libera e avrebbe elaborato come fargliela pagare. Per anni aveva sopportato le sue battutine spicce, lasciando passare solo perché non voleva litigare con suo marito, qualora quell'idiota gli avesse detto qualcosa. Ma da quel momento in poi non ci sarebbe stato più nessuno a placare la sua ira. Uscì, lasciandolo parlare, dirigendosi dall'altro lato della strada. Ormai aveva deciso cosa fare e non sarebbe tornata indietro, era la sua occasione per dare una svolta alla sua vita. Una svolta positiva, sia chiaro!
Raggiunse la staccionata che chiudeva il piccolo vicolo creato da due palazzi e la buttò giù con un calcio. Sentiva l'adrenalina scorrerle nelle vene, l'idea di non avere più limiti e di poter fare quello che voleva gli aveva dato l'impressione di poter spaccare il mondo in due! L'unica cosa che ancora la tratteneva, seppure molto flebilmente, era quel dannato moccioso che aveva in braccio.
Percorse il vicolo saltellando e canticchiando, talmente felice da non percepire neppure l'odore di rifiuti che veniva dai cassonetti. Tutto era diventato meraviglioso e il suo stato d'animo migliorò ulteriormente quando uscì dall'altra parte, dove poté vedere il cancello di ferro battuto del convento. Controllò che per strada non ci fosse nessuno e che dietro le finestre non vi fossero sagome di curiosi, quindi si accinse ad attraversare. Fu un attimo: un'auto sbucò da dietro l'angolo e i fanali la abbagliarono. Sentì le gambe bloccarsi, come se l'asfalto si fosse fuso con le suole delle sue scarpe, poi l'impatto.
Nessuno comprese quale fosse stata la dinamica dell'incidente, le uniche cose sicure furono che l'auto era stata tagliata per lungo in due parti precise, una delle quali aveva travolto la donna, uccidendola. Il bambino ne era uscito miracolosamente illeso, nonostante fosse stato sbalzato in aria durante l'impatto e fosse atterrato in uno dei cespugli di rosmarino che circondavano il convento. Le suore erano state le prime ad accorrere, spaventate dal frastuono, mentre le testoline dei bambini che vivevano con esse si accalcavano alle finestre dei piani superiori.
Fiore aveva sempre tenuto a entrare in scena con classe e andava fiero di come fossero andate le cose, nonostante fosse al corrente di pochi particolari di quella notte. In fondo, le suore avevano visto solo una minima parte di ciò che era successo e non avevano potuto raccontargli chissà ché.
«Ti sei scusato con il signor Ghazi?» gli chiese Egle, dopo aver starnutito con tanta forza da far spaventare Raphael. Nel sentirlo, il grande husky sollevò la testa dal divano, rizzando le orecchie e uggiolando.
«Si, mi sono scusato» rispose il ragazzo.
«E hai sistemato la vetrina?» chiese ancora l'uomo, starnutendo di nuovo.
«Si, ho sistemato anche la vetrina» cantilenò, sbuffando e allungando una mano per prendere la sua tazza di tè al latte da sopra il tavolo. Ne bevve un sorso e arricciò il naso. «È zuccherato!»
«Ho sbagliato tazza» disse Egle, prendendo quella che gli aveva appena passato e sostituendola con quella dalla quale stava per bere.
Fiore ne annusò il contenuto, diffidente, prima di assaggiarlo. Era terribilmente triste e, se fosse stato da solo, avrebbe pianto. La sua fuga con i cuccioli era durata appena il tempo di arrivare alla tana. Aveva creduto di non trovare nessuno, rendendosi conto troppo tardi che Betsy non aveva strappato la pagina del calendario e che quel giorno non era martedì, bensì mercoledì. Ed Egle era sempre andato ad allenarsi nella sua area della tana, il mercoledì mattina.
«Non fare quella faccia, lo sai che non puoi tenere dei gatti in ufficio» disse l'uomo, sedendosi sul divano e passando una mano sulla schiena di Raphael. Fece in tempo a prendere solo un sorso dalla propria tazza, che un altro starnuto lo fece sobbalzare. «Hai la felpa piena di peli, di questo passo mi ucciderai».
«Non è giusto!» sbottò il ragazzo, sbattendo la tazza sul tavolo.
«Vedi di abbassare i toni, ragazzino! Sai bene che effetto mi fanno i gatti, per di più li hai rapiti» lo riprese Egle con voce ferma, riservandogli uno sguardo severo. Ci aveva lavorato per intere settimane, dopo aver cominciato ad avere a ché fare con Fiore, aveva persino riguardato i filmini di famiglia per prendere esempio da suo padre. Non avrebbe mai eguagliato il maestro, ma di sicuro il risultato era stato buono, poté vederlo dalla reazione del ragazzo, che aveva subito incrociato le braccia sul petto e si era voltato dall'altro lato. Quasi provò tenerezza, ricordando quando era lui a comportarsi in quella maniera.
«Non li ho rapiti» provò a dire, zittendosi all'istante, dopo una seconda occhiataccia di Egle.
Nel frattempo, Raphael infilò il muso sotto il plaid a quadri rossi e blu che lasciavano sempre in un angolo del divano, tirandoselo addosso e facendo sbucare solo metà della coda. Non gli piaceva che litigassero, né che Egle fosse eccessivamente severo con Fiore, perché lui, a differenza del ragazzo, sapeva bene cosa era successo quando avevano avuto la sua età. Rapire dei mici indifesi era poca cosa al confronto. Solo a ripensarci, c'era da chiedersi come avessero fatto a rimanere vivi e tutti interi.
Un altro starnuto. «Ho bisogno del cortisone, sono tutto intasato».
«Allora non dovresti tenere un cane».
Da sotto il plaid, Raphael sollevò la testa e riemerse, spostando lo sguardo terrorizzato prima su Fiore, poi sul suo compagno.
«È ai gatti che sono allergico, non ai cani! E, in ogni caso, lui non è un cane!» sbottò Egle.
«A me sembra un cane, invece» continuò il ragazzo, svuotando la sua tazza in un unico sorso e posandola di nuovo sul tavolo. «Me ne vado, così la smetti di starnutire». Si alzò e uscì, sentendo gli uggiolii tristi di Raphael e la voce di Egle, che si era addolcita nel tentativo di consolarlo. Nonostante tutto, in un certo senso li invidiava; la fiducia che c'era tra di loro, la consapevolezza di esserci sempre l'uno per l'altro. Anche lui avrebbe voluto provare qualcosa del genere, un giorno. Gli sarebbe piaciuto anche sapere di avere qualcuno che ricambiasse quei sentimenti e che fosse in grado di farglielo capire. Non che Betsy non meritasse la sua fiducia e non dimostrasse di volergli bene, ma non era la stessa cosa. Per come era fatto, nonostante le fosse affezionato, si era sempre sentito in debito per essere stato accolto.
Senza rendersene conto, si ritrovò a passare davanti alla caffetteria nella quale, per forza di cose, non era riuscito a fermarsi quella mattina. Entrò e comprò l'ultimo krapfen alla crema che era rimasto, facendoselo scaldare, poi ordinò un paio di tè al latte, ma non riuscì a convincere la ragazza che lo stava servendo a mettere qualcosa di alcolico nel suo. Poco importava, avrebbe potuto fare da sé una volta arrivato a casa.
Percorse i pochi metri che lo separavano dal portone, entrò nell'ascensore e raggiunse il quinto piano. Appena fu sul pianerottolo, la porta venne spalancata, mostrando una Betsy molto arrabbiata e armata di ciabatta.
«Ti ha telefonato l'infame?» le chiese, immobilizzandosi e preparandosi alla fuga.
«Non ci provare» lo anticipò la donna. Era anziana e apparentemente non più pericolosa di una normale nonnina, ma lui sapeva bene che si trattava solo di apparenza. «Entra e considerati in punizione per i prossimi tre giorni».
«Ma ti ho portato un krapfen!» provò a difendersi.
«Credi di parlare con una novellina? Ho cresciuto nove figli fatti della tua stessa pasta, bello mio!»
Le speranze di farla franca diminuirono del 70% e Fiore decise che era il caso di accettare la sconfitta, ma solo perché si trattava di lei. Per quanto riguardava Egle, invece, gliel'avrebbe pagata cara!
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