A qualche piano di distanza dagli uffici degli agenti semplici, dove i due ragazzi stavano riposando, Angie Black - Kiki, per i media e per la tana - era diretta nella cella della detenuta N° 147, identificata come Artax. Miguel gli aveva comunicato che sarebbe toccato a loro condurre la terza serie di interrogatori per avere ulteriori informazioni sul conto di Oblivioned. Sapendo quanto fosse occupato con lo smaltimento dei documenti che riguardavano l'arresto, aveva deciso di precederlo e assicurarsi che tutto fosse predisposto per poter procedere. Era la prima volta che si trovavano a dover affrontare una situazione simile, nessuno dei due si era aspettato una promozione, soprattutto perché loro avevano solo concluso ciò che Egle e Raphael avevano cominciato. Sarebbe stato più logico premiare gli altri due.
Raggiunse i corridoi che portavano alle celle dal N° 140 in poi e cominciò a sentire un peso sullo stomaco. Le sue orecchie da gatto riuscivano a captare i lievi movimenti che venivano effettuati dietro le porte, dandole modo di capire quali celle fossero occupate e quali non lo fossero. Una volta arrivata davanti alla 147, però, rimase interdetta; a quanto gli aveva detto Miguel, quella doveva essere la cella di Artax, ma non riuscì a captare alcun movimento. Che stesse dormendo? Si allungò sulla punta dei piedi per riuscire ad arrivare alla piccola apertura sulla porta, che le avrebbe consentito di guardare all'interno, e quello che vide le fece gelare il sangue nelle vene. Afferrò il pomello e fece girare la chiave nella serratura, spalancando il battente ed entrando di corsa nella stanza, affiancando il corpo della donna riversa a terra. Fece leva su un fianco di Artax, in modo da posizionarla supina, poi le toccò il collo, per controllare che vi fosse ancora battito. Un sentore di speranza la riscosse, nel percepire un flebile movimento. Subito prese a eseguire le manovre di primo soccorso e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, chiedendo aiuto, pur non sapendo se qualcuno, ai piani di sopra, fosse in grado di sentirla. Non riuscì neppure a capire quanto tempo fosse passato, prima che Artax avesse una reazione; il suo corpo parve muoversi, come se cercasse di sollevare le braccia per aggrapparsi ad Angie, ma non poteva farlo, avendo le dita chiuse all'interno dei guanti isolanti, necessari per neutralizzare eventuali attacchi da parte sua. Subito dopo, quei movimenti divennero scatti scoordinati, che si diffusero lungo tutto il suo corpo. Angie tolse la cintura della sua tuta e cercò di infilargliela in bocca per evitare che si mordesse la lingua durante le convulsioni, ma la donna aveva già serrato la mascella. Dalle altre celle, anche gli altri detenuti cominciarono a urlare e a fare rumore, la ragazza non comprese se fosse per protestare o per tentare di fare abbastanza chiasso da attrarre l'attenzione dei piani superiori. Lei si era già rassegnata al fatto che nessuno li avrebbe sentiti. Non sapeva cos'altro fare, non aveva le competenze per capire cosa stesse accadendo, non era un medico. Si alzò in piedi e corse verso la porta, decisa a raggiungere l'interfono del primo piano e richiedere assistenza, ma appena raggiunse il corridoio si scontrò con Miguel.
«Cosa sta succedendo?» le chiese, vedendola sconvolta e tentando di farsi sentire al di sopra delle proteste che li circondavano.
Angie si sentì improvvisamente sollevata e lo trascinò nella cella, mostrandole la donna che ancora era scossa dalle convulsioni e aveva cominciato a vomitare una sostanza verdastra e striata di sangue. Miguel le si avvicinò e le fece voltare la testa di lato, nel tentativo di non farla soffocare, poi le aprì la cerniera della tuta, esaminandone la pelle nuda del corpo, che dal suo tipico lilla stava acquisendo un colorito giallastro. Nel vedere la velocità con la quale la mutazione avanzava, l'uomo si allontanò da lei e sollevò un lembo della sua uniforme per ripararsi naso e bocca. «Esci subito da qui e va' e chiamare il reparto di tossicologia!» urlò alla sua compagna.
Lei corse via e si gettò nell'ascensore, raggiungendo il primo piano. Nel tragitto si scontrò con un paio di colleghi, ma non ebbe la prontezza di scusarsi. Lo shock e l'urgenza di raggiungere l'interfono avevano sovrastato ogni cosa, diventando priorità assolute. Eppure, impiegò qualche attimo prima di riuscire a parlare. «Attenzione! Richiesto intervento del reparto di tossicologia nella cella N° 147! Ripeto! Richiesto intervento del reparto di tossicologia nella cella N° 147! Questa non è un'esercitazione!» Se solo avesse potuto, sarebbe scoppiata in lacrime. Invece, contro ogni sua aspettativa, ebbe la forza di allontanarsi dall'interfono e di ripercorrere la strada a ritroso.
Le urla si erano placata, ebbe il sospetto che fosse merito di Miguel. Lui, come molti altri colleghi che lavoravano nella tana, aveva la possibilità di liberare nell'aria delle spore e di controllarne la traiettoria. Uno degli effetti che poteva sortire era proprio quello sedativo. Quando raggiunse il corridoio, trovò l'uomo che tentava di reggersi lungo una delle pareti e si sentì morire. Gli corse incontro e si fece avanti per aiutarlo, ma lui la scansò con un gesto secco della mano. «Non toccarmi e non toccare lei» le disse. Solo allora realizzò che, a differenza sua, lui non stesse indossando i guanti dell'uniforme e che le sue mani stessero passando da un bianco traslucido allo stesso giallo della pelle di Artax.
«Cosa posso fare? Miguel! Dimmi cosa fare!» disse, implorandolo.
L'uomo emise un rantolo e i muscoli del suo collo vennero contratti in uno spasmo violento che gli tolse il fiato. Boccheggiò, nel tentativo di inalare aria, provò persino a sbottonare il colletto della sua uniforme, ma il problema non era all'esterno. Disperato e consapevole di ciò che lo attendeva, estrasse una penna dal taschino della divisa e la smontò, subito dopo prese a graffiarsi la base del collo, lasciando che le sue unghie appuntite come spine ne lacerassero la carne, dando origine a un foro. Là inserì con forza il tubicino vuoto del corpo della penna e parve ottenere un minimo di sollievo. Sollevò lo sguardo su Angie e provò a sorriderle per tranquillizzarla, nonostante dai suoi occhi stessero scendendo lacrime di dolore e non riuscisse a nasconderle la sua paura. La donna avrebbe voluto abbracciarlo e consolarlo, dirgli che a momenti sarebbero arrivati gli addetti al reparto di tossicologia, che lo avrebbero aiutato. Si lasciò scivolare a terra, poggiando a sua volta la testa contro la parete e fissando il suo sguardo in quello di Miguel. Il suo udito da gatto le diede modo di percepire distintamente il suo cuore che dapprima aveva accelerato i battiti e adesso stava rallentando. L'uomo boccheggiò e mosse una mano verso il suo viso, ritirandola subito dopo, tornando in sé e ricordandosi che non poteva toccarla. L'alone giallo aveva ricoperto completamente le sue dita.
«Miguel» singhiozzò, mentre anche lui tentò di mimare il suo nome, senza riuscire a pronunciarlo. Si stava accasciando sempre di più sul pavimento, prendendo una postura innaturale. La sua gola venne scossa di nuovo e il tubetto della penna parve incrinarsi, poi gli spasmi si diffusero lungo tutto il resto del suo corpo e la mascella gli si serrò. Le convulsioni furono talmente violente da farlo cadere completamente a terra, facendogli sbattere la testa contro l'angolo della parete. Angie scattò in avanti, urlando, venendo afferrata e trascinata via. Gli addetti erano arrivati, con le loro tute bianche e le mascherine. Alcuni erano entrati nella cella di Artax, mentre altri avevano circondato il corpo di Miguel, prendendo ad armeggiare con aghi, tubi e provette. Due di loro avevano sollevato di peso Angie, trattenendola e portandola via con la forza, nonostante lei li stesse implorando di non farlo, di permetterle di rimanere con Miguel in quegli ultimi istanti. Fu tutto inutile, nessuno la ascoltò. La trascinarono di peso lungo il corridoio, limitando i suoi strepiti, che si placarono solo nel momento in cui intravide uno degli addetti che si stavano occupando di Miguel che si sollevava da terra e che controllava il suo orologio da polso. Si concentrò sul suo udito per percepire cosa stesse dicendo e si sentì a mancare. L'ultima cosa che riuscì a percepire, prima di perdere i sensi, fu: «Ora del decesso: 15:45».
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