Se fino a quel momento avesse avuto qualche dubbio, Silene poté affermare ufficialmente di essere prigioniera in casa; essere stata trovata nel suo ufficio, svestita e in compagnia di Fiore, aveva fatto montare suo padre su tutte le furie. A comunicarglielo non era stato certo l’agente che era andato a prelevarla, nessuno sarebbe stato tanto sciocco da andare a riferire una cosa simile al Consigliere Maigret, erano bastate le telecamere installate nei corridoi della tana. Col senno di poi, avrebbe fatto meglio a prendersi quei cinque minuti in più per finire di rivestirsi, infischiandosene del fatto che avrebbe dovuto spogliarsi di lì a poco. Quella che era seguita, quando suo padre era tornato a casa, era stata una delle sfuriate peggiori che avesse mai subito e ancora si meravigliava per non aver perso l’udito, dopo tutte quelle urla. Lei era rimasta in silenzio per tutto il tempo, non perché temesse di peggiorare la sua situazione dando una risposta non richiesta, ma proprio per il fatto che a suo padre desse fastidio sbraitare da solo. Al contrario dei suoi colleghi e dei suoi sottoposti, Silene sapeva bene quanto si sentisse stupido in quelle occasioni. Il gesto aveva contribuito a farlo infuriare ancora di più, ma ne era valsa la pena, visto che le era stato proibito di tornare alla tana. L’unica cosa che le dispiaceva era di non poter tornare neppure a scuola, ma solo perché in questo modo non avrebbe più potuto passare sotto casa di Fiore.
Dopo l’attacco, suo padre era diventato paranoico e, nonostante affermasse con sicurezza che non sarebbe stato avviato alcun protocollo di emergenza, aveva fatto emanare un’ordinanza per far chiudere le scuole. Silene lo aveva giudicato incoerente, come al solito. Grazie a lui, adesso le toccava seguire le lezioni online, rischiando di addormentarsi ogni due minuti.
«Che palle!» borbottò, affondando il viso tra le braccia incrociate sulla scrivania di camera sua.
«Signorina Maigret, se la lezione le causa tanto tedio, può anche decidere di abbandonarla» proruppe la voce della professoressa.
Silene schizzò in piedi, facendo ribaltare la sedia e cominciando a muoversi in maniera convulsa, nel tentativo di capire come si spegnesse il microfono. «Le chiedo scusa!» disse, prima di cliccare sulla spunta e sprofondare nella vergogna. Già essere la figlia del Consigliere non era facile, se poi considerava tutte le persone che non vedevano di buon occhio suo padre e che ne approfittavano per prendersela con lei, poteva dire che la sua vita fosse un incubo. Tra queste, c’era anche la professoressa che le aveva appena risposto ed era sicurissima che avrebbe inviato una nota di demerito dritta nella casella di posta elettronica di suo padre. Recuperò la sedia e ci si gettò sopra, ignorando del tutto la lezione e preparandosi mentalmente a un'altra sessione di urla e alla proroga della sua reclusione. Ma i brutti pensieri cedettero presto il posto a qualcosa di più interessante: trovare un modo per evadere e raggiungere il suo amico per un paio d’ore. Proprio in quel momento, sentì vibrare il telefono e si ritrovò a sorridere nello scoprire che si trattava proprio di lui. Le aveva scritto per dirle che Egle gli aveva comprato un telefono nuovo e che quello dal quale le stava scrivendo era in suo nuovo numero e aggiungeva che aveva inviato lo stesso messaggio su tutti i numeri che ricordava le appartenessero, in modo da essere sicuro che lo trovasse. Lei aveva qualche SIM di riserva per le emergenze, tenendole ben nascoste a suo padre per evitare di rimanere isolata, qualora decidesse di privarla del telefono. Le aveva conservate tutte in una scatolina piatta, che aveva nascosto in un piccolo doppiofondo creato in uno dei cassetti della scrivania. All’interno di un’apertura nel materasso, invece, aveva riposto un paio di vecchi telefoni. Quello che stava usando era proprio uno di quelli. Rispose in fretta, comunicandogli che stava bene, ma che suo padre le aveva proibito di uscire, soprattutto con lui. Non passò più di un minuto, prima che ricevesse una chiamata dal ragazzo. «Fir?» gli rispose subito, allontanandosi dall’obiettivo della webcam per non essere vista dalla professoressa.
«Mi dispiace!» proruppe lui.
«Ma sei scemo? Mica potevi sapere che ci sarebbe stato un attentato! Piuttosto, come stai?» gli chiese. Aveva pensato molto al suo stato di salute, si era preoccupata nel vederlo tanto provato dalle docce, ma non aveva potuto evitare che eseguissero il protocollo di sterilizzazione anche su di lui.
«Sembro un gamberetto, sul serio! Egle mi ha aiutato subito con della crema, ma sono ancora tutto chiazzato di rosso. Il dolore invece è passato» le rispose.
Lei rise. «Voglio una foto della tua faccia, la imposto per le tue chiamate in entrata» lo prese in giro.
«Ti piacerebbe! Questo faccino è meraviglioso anche a pois! Mica posso svenderlo così».
Silene sospirò in modo melodrammatico e si dondolò sulla sedia girevole, giocherellando con una ciocca di capelli e pensando a quanto sarebbe stata contenta, se solo fossero stati insieme in quel momento. «Sto pensando a un modo per evadere. Se ci riesco, ti va di fare una passeggiata?» propose.
Dall’altra parte seguì qualche attimo di silenzio e quando Fiore riprese a parlare, la sua voce parve improvvisamente seria. «Per un po’ è meglio se ascolti tuo padre. Credo che la situazione sia più grave di quello che vogliano dirci».
La ragazza ebbe l’impressione che il suo amico sapesse molto più di quanto ne sapesse lei e il fatto che non le stesse parlando chiaramente la mise a disagio. C’erano molte cose che Fir non le diceva apertamente, ma mai ne aveva sentito il peso come in quel momento. «Sei in punizione anche tu?» gli chiese.
«No, ma Egle non mi ha lasciato tornare da solo a casa di Betsy e non voglio che si preoccupino per noi» le rispose. Fiore, a differenza di Silene, dava molta più retta a ciò che gli veniva detto dagli altri; molte volte, durante i loro momenti di ribellione, era stato lui a fermarla dal fare qualcosa di molto stupido, proprio perché qualcuno gli aveva detto che alcune cose non dovevano essere fatte, illustrando una marea di motivazioni. A lei non era mai stata data nessuna spiegazione plausibile da parte di suo padre, se lui diceva che una cosa non andava fatta, l’unica risposta alle sue domande era sempre stata: non va fatto perché lo dico io. In questo modo, si era sempre sentita autorizzata a fare il contrario di ciò che gli veniva detto, stando attenta solo a non essere scoperta. Quando a dirle di no era Fiore, però, tendeva a dargli ascolto. Con lui non si era mai sentita inutile, l’aveva sempre trattata come un essere umano e non come una proprietà da salvaguardare per la continuità di uno stupido nome. All’inizio, quando si erano conosciuti e le aveva presentato la sua famiglia acquisita, era stata molto invidiosa, perché quelle persone, nonostante non avessero alcun legame di sangue, erano la cosa che più si avvicinava ad una famiglia vera. Quella che lei non aveva mai avuto, da quando ne aveva memoria. «Silly? Ci sei?» la richiamò.
«Si, ci sono» rispose.
«Credevo ti fossi offesa e mi avessi lasciato appeso. Non ti sei offesa, giusto?» nella voce del ragazzo c’era della preoccupazione. Era comprensibile, visto che lei rappresentava la sua unica amicizia al di fuori da quella che considerava la sua cerchia famigliare.
«No, sono solo triste. Mi manchi» ammise. Avrebbe voluto mantenere un atteggiamento meno infantile, ma la prospettiva di rimanere a casa, con la donna delle pulizie e suo padre come uniche e sporadiche compagnie – se così poteva definirle – non la rendeva affatto felice. Sentì la voce di Fiore che diceva qualcos’altro, ma non la ascoltò; aveva percepito il rumore della porta d’ingresso che veniva aperta e subito aveva fatto scattare lo sguardo sull’orario segnato sullo schermo del PC. «Aspetta un attimo» gli disse, alzandosi e raggiungendo la parete contro la quale era accostato il suo letto e che, essendo più sottile delle altre, le consentiva di tenere sotto controllo tutti i rumori che venivano prodotti in casa. Le bastò rimanere in ascolto per pochi secondi, per riconoscere i passi di suo padre. Si riportò il telefono all’orecchio, terrorizzata dall’idea di poter essere scoperta. «Fir, ti devo lasciare. È tornato prima» disse. Non servì specificare di chi si trattasse, dall’altra parte arrivò un verso di assenso e la telefonata terminò. Subito lei scostò le coperte e infilò il telefono nella piccola apertura che aveva ricavato nel materasso, ricoprendo tutto subito dopo e tornando alla sua postazione, facendo finta di essere rimasta là a seguire la lezione. Sentiva il cuore martellarle nel petto. Temeva che ci fossero stati nuovi risvolti sulla faccenda della tana, o che ci fosse stato qualche altro attacco che avrebbe segnato la sua esclusione in via definitiva dal mondo esterno, almeno fino a quando suo padre non avesse voluto introdurla al mondo del lavoro. Ma anche in quel caso, dubitava fortemente che sarebbe riuscita a essere libera; da quando sua madre era morta e suo fratello era scappato chissà dove, lei era diventata l’unico erede dell’impero Maigret, come in molti definivano lo status della sua famiglia. Peccato che lei, di quell’impero, non desiderasse neppure le briciole.
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