La porta di camera sua venne aperta e suo padre entrò con calma. Una sola volta, quando ancora era una bambina, gli aveva chiesto perché tutti dovessero sempre bussare, prima di entrare in una stanza, mentre lui poteva aprire le porte senza porsi alcun problema. La risposta era stata: «Perché questa è casa mia». Da lì, Silene aveva compreso di essere un’ospite.
L’uomo si guardò intorno, come se fosse alla ricerca di una scusa per rimproverarla, poi, non trovando nulla, posò lo sguardo su di lei. «Congedati dalla lezione e vieni nel mio studio» le disse seccamente, andando via senza aspettare una sua risposta.
Silene scrisse un messaggio veloce nella chat della videolezione e subito la professoressa le rispose che era ben lieta che si disconnettesse, ma che comunque le sarebbe valsa come un’assenza e che non le avrebbe concesso favoritismi, se non avesse recuperato il materiale per il giorno dopo. Lei non scrisse altro, disconnettendosi e preparandosi a raggiungere suo padre. Avrebbe preferito di gran lunga continuare ad avere a che fare con la professoressa. Lei, almeno, non era sotto il suo stesso tetto.
Lo studio dell’uomo era un’ampia stanza, le pareti erano coperte da librerie e vetrine colme di libri e documenti che sembravano essere stati messi là esclusivamente per creare una scenografia e che facevano da contorno a una scrivania che sarebbe bastata per tre persone. Su questa erano esposte una sua foto e una di sua madre. Una volta c’era stata anche quella di suo fratello, ma si era badato bene a eliminarla, proprio come si fa con le mele marce da un cesto di frutta. L’unica finestra era stata chiusa e i vetri erano stati parzialmente occultati con una tenda che scendeva dal soffitto fino al pavimento, lasciando trapelare poca luce dall’esterno. Silene bussò contro il battente spalancato e raggiunse la poltroncina posta di fronte alla scrivania, appena suo padre le fece cenno di avvicinarsi. «Hai idea del perché ti abbia convocata?» le chiese.
«Beh, se lo sapessi, forse non sarei qui» rispose lei, guadagnandosi un’occhiataccia.
«Tieni a posto la lingua, ragazzina» la riprese lui, prima di aprire violentemente un cassetto ed estrarne una cartellina gialla. La posò sulla scrivania e prese a sfogliarla con una calma snervante, la ragazza sapeva che lo stesse facendo apposta, ma non gli diede la soddisfazione di farsi vedere infastidita. «Ho riflettuto sull’accaduto e ho rivalutato la tua condotta» disse all’improvviso, con un tono che voleva simulare una distrazione anomala per lui.
Silene sollevò un sopracciglio, incredula. «Questo cosa significa?» gli chiese, aspettandosi che presto avrebbe scoperto che dietro a quell’atteggiamento fosse celata una fregatura.
L’uomo richiuse la cartella e la guardò con indifferenza. «Significa che da domani potrai uscire dalle 16:00 alle 18:00, per ora» specificò.
Lei emise un verso pensieroso, collegando subito l’orario con l’alternanza delle ronde pomeridiane. In quel lasso di tempo si svolgevano i turni degli agenti maggiormente qualificati, ovvero coloro che sarebbero stati in grado di affrontare pericoli di un certo spessore meglio di chiunque altro.
«Un Sid ti ha mangiato la lingua, o devo interpretare il tuo silenzio come una presa di coscienza?» riprese lui.
La ragazza sospirò e si trattenne dal ridergli in faccia, temendo un suo ripensamento. Se solo fosse stata sicura di riuscire a farla franca, lo avrebbe ucciso nel sonno. «Presa di coscienza, suppongo» rispose, invece.
Suo padre ne parve soddisfatto. «Ti sarei grato se ti accompagnassi ad alcuni dei tuoi colleghi di studi e non solo a quel ragazzino inutile e a quei due deviati che giocano a fare la famigliola felice. Devi mantenere un’immagine dignitosa, visto il futuro che ti aspetta».
Strinse le mani sui braccioli della poltrona, affondando le unghie nell’imbottitura e si ripeté di rimanere calma; non sopportava che parlasse in quel modo di Fiore e neanche di Raphael e di Egle, nonostante quest’ultimo non stesse particolarmente simpatico neppure a lei. Ogni volta che parlava di loro, esprimeva un disprezzo che, visto dall’esterno, poteva apparire immotivato, ma del quale la ragazza conosceva la fonte; era stata troppo piccola per comprendere appieno i fatti, tuttavia, per quanto era venuta a sapere in seguito, non riusciva a biasimare né Egle, né sua madre. «Va bene» rispose a denti stretti.
L’uomo riprese a sfogliare la cartella che aveva davanti, estraendone un foglio e inserendolo nel fax che aveva appena dietro di sé, prendendosi il tempo di attivare il macchinario. «Adesso vai, ho del lavoro da sbrigare» la congedò.
Lei si alzò e uscì a passo moderato dallo studio, non volendo dare l’impressione di essere troppo contenta per la notizia appena ricevuta. Doveva stare molto attenta e controllare di non essere stata seguita, prima di comunicare tutto a Fiore. Già immaginava quanto sarebbe stato contento di sapere che aveva avuto il permesso di uscire, anche se per poco e anche se non avrebbe potuto passare tutti i pomeriggi con lui per non fare infuriare di nuovo suo padre. Avrebbe dovuto anche pensare a chi contattare per le uscite obbligate, giusto per non passare il suo tempo libero con persone troppo noiose; i suoi compagni di classe le stavano attaccati come zecche nella speranza di ottenere futuri benefici dalla tana, quindi nessuno si sarebbe rifiutato di farle compagni e nessun genitore si sarebbe opposto a farli uscire, anche se fuori ci fosse stata un’apocalisse zombie. L’ambizione era più forte dell’istinto di sopravvivenza.
Arrivata in camera sua, chiuse piano la porta e si fiondò verso il letto per recuperare di nuovo il telefono e scrivere un messaggio. Quando lo ebbe inviato, rimase seduta sul pavimento, con le spalle poggiate contro il materasso, rendendosi conto solo allora di avere un largo sorriso stampato in faccia e sperando che suo padre non lo avesse notato. Aveva cominciato a rassegnarsi a tal punto all’idea di non rivedere più il suo amico, da non riuscire a contenere le emozioni che stava provando. In tutta la sua vita, non si era mai sentita tanto felice all’idea di dover vedere qualcuno e di passarci del tempo insieme, in questo, come in molte altre cose, Fiore era speciale. Lui era in grado di farla sentire una persona libera e indipendente. Le dava di nuovo la speranza di poter prendere in mano la sua vita, in un giorno non troppo lontano, sapendo di poter contare sempre su qualcuno. Se chiudeva gli occhi e immaginava un possibile futuro, vedeva Fiore accanto a sé.
Il telefono vibrò e subito portò lo sguardo sullo schermo, sentendo il cuore battere più forte. Le aveva risposto subito, come sempre. Spense l’apparecchio e lo rimise nel suo posto sicuro, sollevata. Le cose sarebbero potute tornare al proprio posto, pian piano. Forse avrebbe potuto rimuginare su un piano migliore per liberarsi dalla dittatura di suo padre, prendendosi più tempo e lavorando di più sul suo potenziale. In fondo, se l’Istituto di Ricerca Genetica aveva insegnato qualcosa ai comuni cittadini, era proprio che i potenziali si evolvevano con il susseguirsi delle generazioni. Se i calcoli che aveva studiato non erano sbagliati, presto sarebbe riuscita a eguagliare suo fratello, il ché significava che sarebbe diventata molto più potente di suo padre e che non ci sarebbe stato più niente a impedirle di raggiungere i suoi obiettivi.
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