«Sebastiaaan!» urlò il ragazzino dimenandosi sulla sua sedia dall’alto schienale foderato di raso blu «Voglio il thè, straccione schifoso! Yaoi che non sei altro!»
«Yes, my lord» disse il maggiordomo, che secco secco anoressico com’era, si inchinò fino a terra «Bocchan?» chiese poi Sebastian, sbirciandolo da sotto le ciglia lunghe. I suoi occhi avevano perso la sfumature porpora e avevano più o meno il colore del sangue rappreso.
Il “Bocchan” in questione era un ragazzino piccolo, secco, vagamente effeminato. I suoi capelli corti e leggermente monacali, erano di un color topo transgenico turchino sporco ma non troppo. Coprivano in parte gli occhi, anzi l’occhio, visto che l’altro era coperto da una benda nera grande quanta metà della sua faccia. Quello visibile era (normalmente) blu, un’enorme patata blu in un viso piccolo così, ma che all’occorrenza poteva assumere un colorito vagamente violaceo, mentre l’altro lo era sempre e continuamente, solo che, sotto la benda, quando impartiva un ordine diventava un coso fluorescente nell’oscurità. Tipo occhio di gatto, ma grande quanto un gatto.
Era vestito in una maniera che in dialetto calabrese definirebbero “n’suvaratu”, ma che, per noi comuni italiani non-calabresi sarebbe all’antica ma lucido, pomposo, nastrinoso e fiocchettoso, se mi permettete i termini. Non un solo granellino di polvere albergava sul suo abbigliamento uniformemente turchino, non una macchiolina sulle scarpe legnose con un tacco di sei centimetri (e Ciel era molto basso così com’era conciato). Oh, no, c’era un granello di polvere!
Sebastian, veloce come la luce, fulmineo e felino, soffiò sulla polvere che abbandonò il vestito.
Il Bocchan lo guardò con un fulmisguardo, si, come quelli dei pokèmon. Aveva la bocca storta in un’espressione contrariata, una di quelle espressioni da anime che fanno ridacchiare.
Ma Sebastian non ridacchiò. Lui non avrebbe mai volgarmente ridacchiato! Lui rideva argentinamente! Ma non lo fece per paura di beccarsi qualcosa che facesse male, come quella volta che quel mostro antropomorfo gli aveva preso la lingua e gliela aveva ficcata a forza in una narice e gli aveva ordinato di stare così per tutta la giornata
«Non sono stato chiaro, Sebastian?» gli disse, mantenendo l’espressione contrariata «Ho detto» (inquadratura in primo piano delle labbra del Conte) «VOGLIO-IL-THÈ-SUBITO»
«Certo, Bocchan. Mi chiedevo: perché partecipiamo?»
«Perché Sebastian? TU mi chiedi PERCHÉ?!» Ciel si alzò di scatto dal suo trono comodissimo da strariccone che lo voglio pure io e iniziò a gesticolare urlando «Come fai a non capirlo? Stupido pezzente! Cornuto di un maggiordomo! Tu osi chiedere a me perché partecipiamo?!»
«Si, Bocchan» mormorò Sebastian, in soggezione, guardandolo con gli occhi spalancati
«Capriccio» commentò rapidamente, sventolando una mano, poi si risedette e con un gesto imperioso (indice verso la cucina e tazzina immaginaria alle labbra) mandò il suo maggiordomo a preparargli il thè.
Sebastian ci rimase secco. Non che non lo fosse già.
Si diresse verso la cucina. E poi gli venne da svenire.
Rosa, tanto rosa. Shocky Bandz appesi al lampadario. Glitter ovunque. Stelline filanti e pompon in giro per casa. Orsacchiotti, cavallini, tartarughine, coniglietti e tutti i tipi di animali. Peluche.
«CRAZY GIIRRLL!!» si sentì un urlo provenire dalla cucina, mentre la servitù fuggiva passando davanti a Sebastian, senza degnarlo di uno sguardo.
Sebastian ci rimase così secco da essere anoressico.
E poi il canto. Un motivetto terribile, che non si scordava, formato da un’unica parola
«Kawai, kawai, kawai, kawaaaaii!» sembrava la musichetta dello squalo.
E si ripeteva all’infinito.
«Ciao Sebastian! Dov’è Shieru?» domandò una vocina dal basso. Sebastian girò la testa con difficoltà.
«Salve, Elizabeth Cornelia Esthel Middford» rispose il maggiordomo, educatamente
«Ah!» la ragazzina, che aveva una testa piena bionda con due specie di boccoli giganti che avrebbero dovuto essere trecce, scosse il capo con indignazione «Ti sei di nuovo messo quella brutta divisa da corvo! Ora ti aggiusto io!» e detto questo ficcò in testa al maggiordomo una specie di obbrobrio che somigliava solo lontanamente ad un cappello, ma che in realtà era una fascia rosa con sopra appuntati un sacco di fiorellini blu e bianchi di carta, un vero e proprio mazzo gonfio da un lato come un pennacchio,e con il pennarello, nel centro, la fascia recava scritta una parola: Kawai.
Kawai, in giapponese, significa carino, ma Sebastian sperava vivamente che gli Hellsing non capissero il giapponese, visto che da lì a poco avrebbe dovuto incontrarli nel grande salone centrale per affrontare la prima prova contro di loro.
Ciel gridò dal suo studio
«Dov’è la mia tazza di thè?»
«Vuoi una tazza di me?» Lizzie tirò su con il naso «Sebastian, hai visto com’è cattivo Ciel! Mi ha dato della tazza! Vuole dire che sono un cesso?» e pronunciate queste parole che rimarranno impresse per sempre nella storia dei Phantomhive per la loro spaventosa profondità, Elizabeth scoppiò in un pianto dirotto, singhiozzante, che la scosse dalla testa ai piedi.
Sebastian non poteva permettersi di consolarla: la sua priorità assoluta andava al thè del suo padroncino, quel Earl Grey che lui amava tanto, caldo, denso, aromatico e fumate. Prese una teiera e la mise sotto il mento di Lizzie, raccogliendone le lacrime, poi aggiunse abbondante acqua e ci mise in infuso il thè. Visto che l’acqua presente nella casa del reality era limitata, da bravo maggiordomo risparmioso, Sebastian aveva pensato di riciclare persino le lacrime della giovanissima fidanzatina del padroncino.
Peccato che Ciel se ne accorse
«Questo thè …» il ragazzino guardò schifato la bevanda con il suo unico occhio scoperto «Questo thè è salato, ed è stato salato con le lacrime di Lizzie!».
La domanda era, perché un ragazzino così idiota e rancoroso era capace di riconoscere qualunque cosa purché gliela versassero nel thè? La risposta era semplice: lui era il Bocchan, il signore, e questo era il suo talento più spiccato … Sebastian quasi pianse per la commozione, ma fu costretto a piangere davvero quando Ciel lo picchiò con un frustino sul naso fino a strappargliene la punta.
Il Bocchan è sempre il Bocchan.
Il maggiordomo, con la punta del naso perfetto mancante (la freccina immaginaria, immancabile guarnizione di qualunque cosa a base manga, lo indicò creando a mezz’aria il tratteggio perfetto della forma del pezzo di naso assente) uscì. Uno qualunque sarebbe stato triste, o arrabbiato, avrebbe strascicato i piedi o li avrebbe pestati.
Non sarebbe certo sfilato eretto e dignitoso davanti alla servitù che lo fissava con la bocca aperta (Meirin, la cameriera occhialuta, era anche munita di filo di bava) con una freccina che gli sciamava davanti alla faccia indicando un tratteggio sul suo naso.
Un orsacchiotto rosa lo guardò dalla base della scala, con occhi vitrei e morti. «Ti voglio bene» gli mormorò «Diventiamo amici».
Lui lo ignorò con un enorme sforzo di volontà e passò avanti, dignitoso. Non sarebbe stato carino strappa-distruggere un orsacchiotto di Lady Middford
«Sebastian-san» mormorò la cameriera, piangente.
“Il signorino è troppo severo. Cosa ha fatto di male Sebastian-san?Povero cavaliere valoroso!” pensò il giardiniere superforzuto nonostante fosse secco che, come gli altri della casa a parte il cuoco Bard, era impossibile da definire “maschio” seppure egli lo fosse. Eh, si, madre Natura era stata proprio cattiva con quei poveretti. Aveva munito il giardiniere (Finnian o Finny per gli amici) di una bella mollettina rossa che raccoglieva i suoi capelli biondi e leggermente sparati in un ciuffetto laterale che era estremamente femminile. Si, proprio Madre Natura: la molletta era parte del corpo del ragazzo.
Dopo che Sebastian gli ebbe preparato un thè decente, e Elizabeth avesse finito di versare tutte le sue lacrime, Ciel Phantomhive annunciò
«Andiamo. Subito. Venite, Sebastian, Lizzy, Bard, Meirin e Finnian. Seguitemi!» detto questo prese il suo bastone ma lo riposò con una smorfia.
Il legno era strano, era … a chiocciola! Era perfettamente piegato, con tanto di topo che saliva e scendeva come uno scemo forsennatamente dal bastone, una vera scala.
Ciel assunse una espressione irosa. Finnian iniziò a sudare freddo. Di solito non si controllava, non riusciva a controllare la sua forza. Ma stavolta era stavo volontario
“«Oh!» esclamò «Il bastone da passeggio nuovo del signorino!».
Era bello, nero e levigato, regale nonostante fosse un pezzo di legno. Finnian tese la mano ma la ritrasse subito. Era pericoloso.
Era così … bello. Aveva l’aspetto estremamente malleabile, ma regale con tutto quel nero.
Sentì l’impulso. Doveva prenderlo. Ora. E romperlo.
Tese la mano e tocco il legno freddo e lo attirò a se. Tentò di spezzarlo, mettendoci tutta la sua superforza, ma con sua enorme sorpresa il legno si piegò verso il basso. Non era legno.
Sorridendo, Finnian iniziò a modellarlo, prima come un cane, poi come un grillo, poi si stufò. E gli venne un’idea.
Il legno,o qualunque cosa fosse, si piegò docilmente fino a diventare una specie di scala.
Accortosi di quello che aveva appena fatto, Finnian fuggì. Rientrò in cucina dove trovò Bard
«Tehe!» disse mettendosi una mano dietro la testa.
Bard lo guardò interrogativamente.”
Lo sguardo del Bocchan saettò verso Finnian
«FINNYYY!» urlò, adirato «Sebastian!» additò il giardiniere «Sculaccialo!»
«Yes, my lord» gli occhi del maggiordomo si accesero di porpora «Sono un diavolo di maggiordomo. Un maggiordomo perfetto»
Finny indietreggiò terrorizzato.
Poi fu il nero.
Dolore!
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