“Vivi di carne come di parole, ama Gaia, la Madre Terra, come la sua sorella Luna e non temere ciò che verrà domani. Combatti, e se il dolore ti assale rallegratene ugualmente perché ciò può solo significare che sei ancora vivo.”
Prologo
La notte in cui iniziò tutto…
Il mio fiato saliva in nuvolette pallide nell’aria gelida, i miei occhi rimanevano socchiusi a scrutare quella luce strana, sottile eppure potente.
La luna piena mi esaltava, mi rendeva ebbra. Io ero tutto e niente, ma tutto era me.
Tutto era in me e la mia pelle vibrava sotto il tocco dell'ossigeno che danzava, molecole come punte di penne a sfera che mi pizzicavano la pelle con il loro freddo vitale.
Sentivo il respiro dei conigli acquattati nelle loro tane di terra e di sassi, sentivo che la vita pulsava nei fiumi, nei fili d'erba mossi dalla brezza, quella stessa brezza che mi portava una miriade di odori meravigliosi e sfumati, come in sogno, essenze di gelsomino, di sambuco e di geranio selvatico lontani.
Risalii lungo la collina seguendo il mio olfatto, vidi muoversi figure slanciate, a quattro zampe, irsute e dal manto splendente bagnato della pioggia di quel pomeriggio. Vidi quelle ombre rapide zigzagare fra i tronchi, li vidi uggiolare, guaire, urlare, gemere. Li vidi rincorrersi alla pallida luce strana, sbuffare annusando la terra e seguire le tracce della carne che vive.
Erano lupi. Erano simili a me eppure tanto diversi che mi spaventarono.
Più piccoli, più compatti, più veloci di me, con i loro fianchi slanciati eppure muscolosi. La mia goffaggine mi rendeva male accetta dal branco, bisognoso di predatori rapidi che scomparivano silenziosi quasi non battessero le zampe contro la terra, quasi non calpestassero la stessa erba verde che calpestavo io.
Il loro odore mi raggiungeva, mi rapiva, mi chiamava.
Mi diressi verso di loro a passo lento, con il cuore in gola. Il palpitare del muscolo che dal mio petto pompa il sangue nelle mie vene si fece più veloce man mano che mi avvicinavo alle ombre.
Serpentine nel loro scatto rapido, le teste feroci dei lupi si sollevarono verso di me ed io potei vedere i loro occhi d’oro e d’ambra brillare alla luna, come sfere rotonde di vita. Le loro labbra nere e magre si sollevarono in ringhi minacciosi, mi allontanarono con i mormorii vibrati delle loro ampie gole di bestie selvagge.
Retrocedetti, sotto i miei polpastrelli sentivo l’umidità grassa del terriccio, del legno marcio e del trifoglio, di aghi di abete e di condensa. Inspirai e sollevai le labbra, arricciando la lingua.
I lupi si mossero verso di me, rizzando i peli e le belle code folte dalle punte nere. Io mi alzai sulle zampe posteriori, contrassi i muscoli delle spalle e mi scrollai di dosso la voglia di fuggire.
Tesi ogni tendine ed ebbi modo di credere che ogni cellula fosse pronta a scattare, a fare male, ogni mia fibra ringhiava e si teneva pronta a dilaniare.
Vidi un animale magnifico avanzare alla testa del branco di lupi, puntandomi come se io fossi un coniglio gigante, avanzando un passo alla volta come se non volesse farmi fuggire, eppur con la stessa cieca fame, determinazione di sopravvivenza, di chi accerchia la preda prima di carpirla. Aveva una pelliccia grigia scura, con sfumature brillanti sul dorso muscoloso, fasci di fibre che vibravano ad ogni movimento sotto la pelle spessa degli arti anteriori e piedi larghi, tondi, pesanti, che lasciavano impronte altrettanto spaventose, ma grandi nemmeno la metà delle mie. Il suo muso era altrettanto largo e pesante, ursino, con ciuffi di pelo ispido sulle guance che si ergevano a raggiera e continuavano sui lati del collo fino a sfumare nella criniera serica, morbida e folta, che arrivava fino all’attaccatura delle spalle, dove si potevano scorgere striature nere che oserei definire tigrine.
Mi guardò negli occhi, superando l’ancestrale paura che lega il lupo alle creature come me. Le sue iridi spietate sembravano d’argento vivo e guizzante, predatrici come lui, con pennellate d’ottone e d’oro fuso.
Anch’io sostenni con temerarietà il suo sguardo e avanzai tentando di darmi un’andatura contenuta, di soffocare gli istinti primordiali della carne e del sangue che mi assalivano quando la luna piena si levava su di me.
Il lupo grigio retrocedette, piegando il muso sul petto bianco.
Aveva paura, ma la cosa peggiore era che lo stava dimostrando.
Io mi slanciai verso di lui, dimenticando ogni cautela, digrignando i denti, spaventandolo. Credevo che i lupi mi avrebbero attaccati in massa, avrebbero tentato di uccidermi, ma non fu così. Rimasi sola, una creatura dannata sotto la luna piena, a guardare le schiene argentee dei componenti del branco che si allontanavano troppo velocemente perché potessi raggiungerli. Una malinconia oscura mi risalì dal petto alla testa e un pizzicore strano mi fece venir voglia di urlare e di piangere.
Mi sedetti sulla terra umida e la tensione che m’attanagliava i muscoli si sciolse d’improvviso. Puntai il muso alla luna. La benedissi. Poi la maledissi. Infine feci l’unica cosa che avrebbe potuto esprimere quello che provavo. Ululai.
Ed il mio urlo solitario spaventò ogni creatura, terrorizzò i conigli nelle tane e terrorizzò gli uomini, si udì a grandi distanze, riecheggiando ovunque. Era il mio dolore ed il mio piacere, il mio modo di chiedere aiuto e di allontanare chi era troppo incauto da cercare di darmelo.
Udii risposta. Qualcun altro era dannato come me. Qualcuno poteva aiutarmi senza venire scacciato, qualcuno poteva essere il mio piacere senza tentare il mio istinto del sangue, la fame che mi rendeva cieca e feroce al punto tale che i grandi branchi avevano paura di me.
Il pelo mi si rizzò istintivamente sulle spalle, socchiusi gli occhi e scrutai l’orizzonte pallido di abeti magri e neri vagamente illuminati. Un profumo forte, silvestre, selvaggio solo in parte e se non altro familiare mi raggiunse e m’invase le narici, portato dal vento come fumo dei camini degli uomini.
Vidi ciò che stavo cercando, ma ciò che cercavo si volse e corse via.
Era giocondo, sfuggente, mi invitava a correre con lui. Ed io partii, sollevandomi sulle zampe rapidamente, senza più malinconia a sostituire la gioia che nasceva nel mio cuore alla sola vista di quella figura familiare e galoppando senza remore, senza freni, slanciandomi sull’erba e sulla terra senza timore di non poter raggiungere il mio obbiettivo, che era veloce quanto lo ero io e mi desiderava quanto io desideravo lui.
E mentre correvo, il vento, brezza fresca notturna che sapeva di aghi di pino e di resina dolce, mi accarezzava la pelliccia, i miei muscoli perdevano ogni torpore, divenivano vivi, vivi davvero, non nel modo feroce di quando erano pronti a dilaniare, ma solo come ora,che erano pronti a sforzarsi per raggiungere un compagno il quale mi avrebbe aiutato a sfamarmi, il quale avrebbe compreso la natura del mio problema e del mio spirito pur senza tentare di capirlo, ma semplicemente perché era ciò che ero io.
La sagoma era ancora lontana, ma d’un tratto si fermò e si mise eretto sulle zampe posteriori. Era curioso, sembrava una marmotta gigante. Non superava la mia altezza, anzi, era parecchio più piccolo di me, ma aveva fattezze notevolmente più tozze. Era un maschio, il suo odore era inconfondibile, forte, muschiato.
Non riuscivo ancora a riconoscerne tutti i tratti, ma più mi avvicinavo, più mi stava simpatico. Non era il compagno della mia vita, di sicuro, ma era bello. Aveva le spalle meno curve di quelli che sono solitamente i canoni della mia specie, era robusto, ben piantato, con un petto ampio e muscoloso. Meno fibroso ed agile di me, era un ammasso di carne e si era anche permesso di avere del grasso, non capivo dove potesse trovare il cibo in questo periodo in cui le prede, ne ero sicura, scarseggiavano.
Non sapevo come facessi a conoscere questo fatto, che le prede scarseggiavano, ma c'era qualcosa nella mia testa che diceva “niente cervi, niente cani selvatici, solo qualche coniglio”.
Annusai l'aria, piano. L'altro se ne stava lì, ben piantato e tranquillo, ma di sicuro avrei potuto farlo fuori in un batter d’occhio: aveva l’aria del cucciolone, morbido, tenero quanto bastava per non incutermi neppure il normale senso di rispetto che m’incutono i miei simili, anche se ero sicura che per gli esseri umani fosse abbastanza terrificante. Però era proprio questa tenerezza ad attrarmi, non mi spiegavo come fosse possibile che in questo mondo divenuto così crudele esistessero ancora creature del genere.
E poi era coraggioso.
Lui non era neppure intimorito da me. Ero più grande, sicuramente più cattiva, più veloce, ma lui mi guardava calmo dall’alto del suo scarso metro e ottanta, ad un certo punto incrociò anche le braccia sul petto come fanno gli esseri umani. Ero ormai ad un soffio da lui, mi sedetti di nuovo sull’erba e lo guardai meglio.
Aveva la pelliccia di un cupo rossastro, striato di nero sul collo e sui polsi, con il busto coperto fino all'ombelico da quella che sembrava una felpa stracciata e le gambe contenute in pantaloni troppo corti per lui, mentre i suoi occhi erano verdi e luminescenti in modo strano, come se fossero retroilluminati.
Sbuffai per colpa della polvere che mi era entrata nelle narici mentre correvo ventre a terra, poi rimasi immobile. Mi ricordava qualcuno, qualcuno che aveva fatto parte della mia precedente vita umana, prima che la luna reclamasse il mio corpo per trasformarmi in un essere rinnegato dalla natura stessa, una donna che era lupo, ma che non lo era. In realtà la mia vita era sempre stata diversa da quella degli altri, altrimenti non mi sarei ritrovata lì, in una notte di plenilunio.
Mi sentivo braccata. Sentivo che non era normale diventare ciò che ero, sentivo che era successo qualcosa prima di allora e che quel qualcosa mi impediva di ricordare.
Eppure ciò che avevo davanti a me continuava a rammentarmi qualcosa. Si, quel licantropo mi ricordava un uomo. Eppure, con sconcertante certezza, seppi che non era lui.
Si avvicinò tranquillo, un passo avanti all’altro, poi si sedette accanto a me. Era caldo e morbido ed ora il suo odore mi stordiva, mi calmava. Come il gusto ha un retrogusto, anche il suo odore aveva un retrodore, di carne cotta, pigne bruciate, di incenso, di linfa arsa. Mi guardò sereno, le pupille fisse, ferme e profonde, eppure luccicanti come specchi, superfici di due mari profondi e freddi.
Mi toccò la guancia con un umido colpetto di naso. Lo lasciai fare, concedendogli la mia simpatia.
Iniziò a piovigginare, una pioggerella sottilissima e ghiacciata, come minuscoli aghi sotto la pelle.
Poi egli guardò le poche, sparute stelle, contrasse i muscoli della gola e spalancò le fauci verso il cielo.
Lo imitai e ci ritrovammo ad ululare alla stessa luna con uguale foga, con uguale felicità. Seppi che era contento di avermi trovata e che forse non ci saremmo mai più separati, forse avremmo trovato insieme altri come noi e avremmo creato un branco come quello dei lupi, forse avremmo fondato una nuova grande famiglia ed il licantropo sarebbe stato riconosciuto come una razza a parte, come la più nobile di tutte le razze. Nel frattempo ululammo fianco a fianco mettendoci tutta l’anima, perché volevamo fare sapere al mondo che esistevamo, che ci eravamo trovati, e che chiunque ci avesse ostacolati sarebbe stato spazzato via per sempre dai nostri artigli e dalle nostre zanne.
Perché noi eravamo la voce della notte.
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