AVVERTENZE~
Questo capitolo contiene scene spinte, se siete facilmente impressionabili sconsiglio la lettura
Da quanto tempo non dormivo così tranquillo? Era più dolce che navigare sul mare calmo. Sarei potuto rimanere lì a dormire in eterno. Nonostante la presenza di quei due vampiri, ero molto tranquillo: Oscare non sembrava un tipo pericoloso e Thomas...
Lui ERA pericoloso. Però, anche se non sapevo il perché, le sue mani che mi stringevano in quel modo così protettivo mi avevano fatto sciogliere come il burro.
Sì, lui mi faceva sentire bene in quei momenti, quando mi abbracciava e rendeva il mio sonno più tranquillo, almeno finché non arrivarono gli incubi... o meglio i ricordi.
Ero di nuovo lì, in quello stanzino buio e maleodorante, rannicchiato, mentre piangevo. Potevo avere poco più di 10 anni. Quello era il posto che odiavo più di ogni altra cosa, ma ne avevo anche una grande paura, perché quella era la stanza di isolamento.
Poteva essere poco più grande di un metro quadrato ed era buio.
Loro lo sapevano! Sapevano che odiavo il buio, che ne avevo paura e questo faceva loro comodo.
Succedeva ogni volta!
Ogni volta che tornavo tardi a casa, che uscivo senza il loro permesso, che osavo lamentarmi, dire qualcosa senza che fossi stato interpellato, prendere un brutto voto a scuola, ogni volta che gli insegnanti si lamentavano di me... ognuna di questa volta ad attendermi c'era il buio e freddo stanzino. E se non entravo da solo, loro mi avrebbero fatto entrare picchiandomi o aggiungendo ulteriori punizioni.
All'inizio mi chiudevano li dentro a chiave e con un lucchetto. Ma quando diventai più grande cominciarono a bloccare la porta con i mobili.
Ma quello stanzino, per quanto terribile, era solo l'inizio.
Quello che veniva dopo era mille volte peggio...
La porta si apriva sempre lentamente, facendomi morire di paura, e il viso di mia madre o di mio padre faceva capolino sulla soglio, con sempre un'espressione diversa dipinta in volto.
Loro mi odiavano, perché ero il frutto di un errore, era per colpa mia se si erano dovuti sposare molto giovani.
Continuavano a ripetermelo: «Se tu non fossi nato sarebbe stato meglio. Sei solo un inutile sanguisuga!» queste erano le uniche parole che mi dicevano. Sì, io per loro non ero altro che un sanguisuga che viveva solo per rendere la loro vita più difficile.
Tra di noi non c'erano né baci né abbracci né coccole. Solo dolore e punizioni, almeno per me.
I miei nonni, i complici di tutto ciò, non sapevano niente delle mie condizioni, li aveva visti pochissime volte. Quante? Cinque? Forse sei.
Erano comunque poche e ogni volta che li vedevo non potevo fare altro che fingere davanti ai loro occhi, o mi sarebbe successo qualcosa di molto brutto.
Quanto li odiavo...
Se non fosse stato per loro non sarei mai nato e non avrei subito tutta quella violenza.
Però, erano stati loro a darmi il mio nome, i miei non si erano nemmeno presi la briga di darmene uno. Così mi chiamarono Rei.
Quando la porta di quell'infernale stanzino si apriva, io cominciavo a tremare. Non erano pochi i lividi o le cicatrici sul mio corpo e non erano nemmeno poche le volte che avevano cercato di sbarazzarsi di me.
Mi ricordavo perfettamente della volta in cui mi aveva buttato giù dalle scale, sperando che morissi.
Mi lasciarono lì ferito e sanguinante. Per un istante pensai che forse tutto sarebbe finito, non nel migliore dei modi, ma almeno sarebbe finita.
Purtroppo per loro, ma soprattutto per me, una vicina si accorse di me e chiamò subito l'ambulanza.
Avevo qualche osso rotto. Una delle peggiori ferito che mi infersero.
In ospedale chiamarono i miei genitori, anche quando li pregai di non farlo, ma non mi diedero ascolto e, quando arrivarono, si finsero addolorati, mia madre addirittura pianse... forse, perché non ero morto.
Dopo quel tentativo ne seguirono molti altri: veleno per topo nel cibo, strangolarmi nel sonno, cercare di investirmi...
Nonostante tutto, tutte quelle ferite, tutto quel doloro, tutto ciò che mi avevano fatto, tentai di scappare solo una volta... la scelta peggiore che potessi mai fare.
Il ricordo più doloroso che avessi conservato e quello di cui non mi sarei mai e poi mai dimenticato.
Avevo deciso di scappare. Avevo preso tutto quello che consideravo utile: una torcia, una coperta, pochi vestiti, qualcosa da mangiare e quei pochi soldi che ero riuscito a conservare. Misi tutto dentro uno zaino e uscì di casa senza farmi notare. Era... pomeriggio, in estate! Non sapevo dove andare, non ricordavo nemmeno dove vivessero i miei nonni, ma qualunque posto sarebbe stato meglio di quello.
Non seppi esattamente cosa sbagliai, ma capirono che non ero in casa e mi trovarono che non era passata nemmeno un'ora. Non ero nemmeno riuscito ad uscire dalla città.
A trovarmi fu mio padre. Il suo sguardo furioso era fermo su di me, mi bloccai sul colpo. Non provai nemmeno a scappare, sapevo che avrei solamente peggiorato la situazione.
Salii in macchina senza che mi dicesse niente, i suoi occhi dicevano tutto.
Fu il quarto d'ora peggiore della mia vita. C'era solo silenzio in quella macchina. Mio padre non staccava gli occhi dalla strada, il viso era contorto in un'espressione furiosa e le mani stringevano con rabbia il volante.
Quando arrivammo a casa, la mamma non c'era, papà aveva detto che era uscita a divertirsi con le sue amiche, fregandosene del fatto che io fossi scappato. Forse le faceva comodo. Forse faceva comodo ad entrambi.
Allora perché mi aveva riportato indietro?
La risposta arrivò troppo presto.
Mi afferrò per il braccio e credetti che mi stesse portando nello stanzino, ma non fu così. Entrammo nella sua stanza da letto e chiuse a chiave, sia la porta che le finestre.
All'inizio, non capendo cosa volesse fare, mi gettai ai suoi piedi, piangente, e lo supplicai di non farmi del male, o almeno non troppo. Ma niente sarebbe riuscito a smuoverlo.
Mi afferrò per i capelli e mi gettò sul letto.
Disse solo poche parole: «Preparati a diventare la mia puttana!»
Si spogliò e si fiondò su di me, strappandomi i vestiti come se fosse un animale, inchiodandomi al materasso e legandomi i polsi alla testiera del letto con i vestiti strappati.
Le lacrime e le preghiere non servivano a niente.
Sentii la sua lingua su tutto il mio corpo, mentre le sue mani scendevano giù, sempre più giù, afferrandomi con forza le natiche.
Mentre abusava di me non faceva altro che ridere e ghignare, nonostante continuassi a pregarlo con le lacrime che mi bagnavano il viso.
Inserì il primo dito e subito una scossa di dolore pervase il mio corpo.
Giocò a lungo con la mia apertura, poi aggiunse un secondo e un terzo dito muovendoli sempre più velocemente, aumentando il dolore.
Gridai e gridai, ma la mia voce non veniva ascoltata.
Quando uscì le dita, sentii sollievo.
Ma lui non si fermò...
Si posizionò davanti alle mie game e le allargò con forza.
Capendo quello che voleva fare e spaventato, cercai di scappare, riuscii a mettermi a gattoni sul letto, ma non riuscii a fare molto.
Con la sua mano mi afferrò per i capelli e spinse il viso contro materasso, con l'altra, invece, ricominciò a giocare con la mia apertura, divertito.
«Molto gentile ad offrirmi una così bella vista!»
Si abbassò fino a sfiorarmi l'orecchio con le labbra, mentre con la mano teneva su il bacino che scontrava contro il suo.
«S-sono tuo figlio, p-perché mi fai que-questo?»
«No, non sei miglio.» mi morse il lobo «Sei una puttana!»
Dopo questo mi penetrò con forza facendomi gridare a squarciagola. Gridai dal dolore così forte che chiunque mi avrebbe sentito, ma lui mi tappò la bocca con una mano.
Era così doloroso! Così umiliante!
Non aspettò che mi abituassi alla nuova presenza dentro il di me e cominciò a spingere con forza e vigore.
Strinsi le lenzuola tra le mani e i denti.
Ma nonostante tutto, versi di dolore mischiati a quelli perversi uscirono dalla mia bocca. Tutto quello non mi piaceva, mi faceva troppo male per potermi piacere, ma il mio corpo rispondeva a tutto.
Dietro di me, lui rideva e si compiaceva, spingendo sempre più forte e veloce, accompagnando ogni sponta ad un verso roco.
Continuò per un tempo indefinito, finché non diede una spinta più fronte delle altre e con verso più forte di quelli di prima versò dentro di me il liquido perlaceo.
Era venuto dentro di me.
L'avevo appena fatto con un uomo... con mio padre...
La verginità mi era stata presa da mio padre.
Non avevo mai provato umiliazione più grande e non ne avrei mai provato più grande.
Sfinito e dolorante, caddi sul letto a peso morto, sfinito, denudato di ogni dignità mi strinsi nelle corpo e piansi più fronte di prima, gridando.
Lui si alzò e si accese una sigaretta, incurante di come stessi.
«Alzati e vattene!» disse senza un minimo di comprensione.
Mi sollevai dolorante e raccolsi tutte le mie cose.
Il giorno dopo non riuscii nemmeno ad alzarmi dal letto, tantomeno camminare.
Dopo quella volta ne seguirono molte altre.
Non capivo quel desiderio animelasco e brutale. Faceva solo male.
I bei sogni non avevano più spazio dentro di me, c'erano solo incubi.
Forse Thomas non sarebbe poi stato così male in confronto al mio passato.
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