Maestro Kyōka serviva come musicista alla corte del suo mecenate, il daimyo Kitai Genzaburō. Fu subito chiaro che sia il signore che suo figlio considerassero il giovane svampito un tesoro inestimabile. E fu per questo motivo, o meglio per il grande servizio che Akari aveva inconsapevolmente compiuto preservando il loro investimento, che insistettero nei loro ringraziamenti fino a costringerlo ad accettare un invito alla loro residenza. Da reietto senza protettori, sapeva di non poter rifiutare l'offerta: se lo avesse fatto, lo avrebbero accusato di essere arrogante e ingrato, e la benevolenza si sarebbe istantaneamente trasformata in ostilità. Poteva solo sopportare per qualche giorno, ed essere lasciato andare senza impicci, risparmiando il potente signore dall’ingiuria. Aveva già gravemente offeso un lord feudale in passato, il proprio, e non era detto che sarebbe riuscito a scampare alle conseguenze una seconda volta.
Anche i Kitai erano nel bel mezzo dei festeggiamenti dei matsuri primaverili, e forse per quello non badavano a spese. Gli fu data una stanza, implicando che non lo avrebbero lasciato andare finché le celebrazioni non si fossero concluse. Gli fu offerto del cibo squisito e chiesto di condividere il sake al tavolo di uomini d’alto lignaggio per tre giorni interi. Akari accettò ogni offerta, i continui intrattenimenti e la gentilezza dei suoi ospiti, pur nascondendosi dietro un contegno stoico: come aveva previsto, la permanenza presso il daimyo diventò velocemente un’esperienza estenuante. La solitudine negli anni lo aveva reso intollerante allo sfarzo. E alle domande sulla sua vita privata.
«Mastro Aikawa!», lo chiamavano con il suo nome di copertura, sollevando i bicchierini di sake in suo onore. «La vostra condotta è impeccabile, in tempi di guerra i samurai senza signore dovrebbero prendere tutti esempio da voi! Ci sarebbero meno disordini per le strade, non è vero?»
«Si perde il signore ma non si abbandona la Via.» Akari mascherò la propria perplessità dietro una frase fatta. Come se fossero i ronin a creare scompiglio in strada, con un’invasione di demoni in corso attraverso tutto il paese!
«Vi arreco offesa se domando quali battaglie abbiate combattuto?»
Akari finse che quel tipo di indagini sul suo conto non lo facessero sudare freddo:
«L’Inverno di Kanzawa.»
La rivelazione fece trattenessero il respiro agli uomini e le donne che la udirono. Akari sperò che sarebbe bastato quello a porre fine alla curiosità della sala: non importava da che lato del fronte si fosse trovato durante quella campagna militare tra i Matsudaira e i clan confinanti, perché accennarvi bastava a identificarlo come reduce della peggiore delle guerre. La notizia aveva avuto il tempo di attraversare il paese da nord a sud nei dieci anni che erano trascorsi da allora ed era di dominio pubblico che Kanzawa fosse stata la prima città nel paese a subire un attacco massiccio da parte delle forze demoniache, proprio durante lo stesso inverno. L’Orda dell’Odokuro bianco, il gigantesco demone scheletro che divorava la carne degli esseri umani, era calata sulla città e l’aveva rasa al suolo. L’unica cosa che non potevano sapere, e di cui Akari non li avrebbe sicuramente informati, era come fosse caduto il capoclan Matsudaira, il suo ex nobile signore. Nel caos che era seguito alla sua morte e alla distruzione della città del clan, il responsabile non era mai stato catturato.
Trafitto nella notte da un dardo, ciò che se ne diceva.
Scoccato dal suo servitore Akari Nishida, ciò che era meglio nessuno sapesse.
«Siete un guerriero valoroso,» concluse qualcuno tra gli astanti, con l’intento di allontanare il discorso per sempre. Nessuno voleva parlare di disgrazie in quel clima fin troppo spensierato. «Le vostre gesta con i demoni di fuoco saranno sulla bocca di tutti per un bel po’ di tempo.»
Chiaramente questi uomini non hanno mai visto un demone in vita loro. Lasciando che il cambio d’argomento ribalzasse da una bocca all’altra, Akari non poté che soffocare ciò che avrebbe voluto dire contro il bicchierino del sake. Provare a spiegare la differenza tra un oni e un semplice spettro di fuoco avrebbe rovinato l’atmosfera, oltre che attirare altre domande scomode.
Durante il soggiorno di Akari, Maestro Kyōka, quello strano tipo che non sembrava dare il giusto peso alle cose, fu invitato spesso a esibirsi per la corte: ogni volta, con grande eleganza, lasciava intendere di non essere pronto a suonare. Aveva bisogno di tempo, dopo quanto era accaduto nel rogo della casa da tè – la sua ispirazione doveva rigenerarsi. Comprensivi e pazienti, i suoi patroni mostravano il loro disappunto, ma non lo forzarono mai. Un comportamento del tutto inaspettato in degli uomini facoltosi che investissero il proprio denaro nella materia evanescente delle arti. Ma ad Akari non interessava particolarmente, e smise di farci caso.
Sul finire del terzo giorno, il ronin decise di averne abbastanza: era arrivato il momento di andarsene. Progettò di farlo di notte, dopo essersi profuso negli ultimi saluti e ringraziamenti sul finire del banchetto giornaliero. Sarebbe sgattaiolando oltre la recinzione della villa, sfruttando il fiuto di Yasha per passare inosservato. L’unica gentilezza che i Kitai avrebbero potuto concedergli a quel punto era di lasciarlo andare via senza porre ulteriori domande.
Insieme a Yasha nel suo solito ruolo di avanguardia, Akari aprì le porte della propria stanza e scivolò nel corridoio: percorsero insieme la casa addormentata fino alle porte che si affacciavano sul cortile, attenti allo scricchiolare del legno sotto ai loro piedi. Mentre cercava di sbucare silenziosamente all’aperto, un rumore di passi mandò Akari in allarme. Fece per ritirarsi nel corridoio, segnalando a Yasha di nascondersi. Naturalmente, lei disobbedì.
Trotterellò curiosa in direzione dei rumori, fino a quando da dietro l’angolo non emerse il profilo alto di un uomo. Illuminato dalla fioca luce argentata della notte, Akari riconobbe Maestro Kyōka.
Con bassi ululati entusiasti, Yasha prese ad arrotolarsi vezzosamente attorno alle sue gambe. Divertito, Kyōka si inginocchiò per carezzarle il collo, grattandole il gonfio pelo attorno al muso. Opportunista traditrice, Yasha dimostrò il suo apprezzamento poggiandogli le zampe anteriori sulle spalle. Riconoscendo la futilità del continuare a nascondersi, Akari emerse allo scoperto, fissando la sua compagna mentre leccava profusamente il volto del musicista. L’animale non lo degnò di uno sguardo.
«Mastro Aikawa», nel riconoscerlo, Kyōka sembrò compiacersi. «Sapete che vi cercavo?»
«Che coincidenza,» bofonchiò l’altro. Il suonatore si liberò delle attenzioni della scodinzolante Yasha e lo raggiunse: studiandolo, notò l’arco e le frecce legate alla schiena del ronin, e il suo sacco da viaggio. Era l’ultima persona che Akari avrebbe voluto incontrare in quel momento.
«Andavate via?», domandò.
«Andavo via,» confermò Akari, senza nascondere la propria irritazione. «Sono onorato dalla vostra ospitalità ma non posso trattenermi oltre.»
«Oh, qui sono un ospite anche io,» gli fece notare Kyōka, come se l’insofferenza nella voce di Akari fosse del tutto irrilevante. «Siete un tipo sfuggente?»
Domanda talmente fuori luogo che Akari non seppe che dire.
«Sì, intendo…preferite trovarvi nei posti dove sapete di non essere atteso,» chiarì Kyōka.
«Quel luogo potrebbe essere ovunque,» rispose Akari, evasivo.
«Come nella sala da tè. Poco prima che scoppiasse un incendio.»
Su di loro calò un silenzio pesante. Akari non capiva cosa l’altro volesse insinuare, ma non era neppure certo di volerlo sapere.
«Mi ha stupito, sapete?», riprese l’artista. «Il modo in cui siete apparso dal nulla. Proprio mentre tutti noi rischiavamo di non uscire mai più vivi da quel posto.»
«Pensavo quasi che aveste rimosso questo dettaglio,» commentò Akari. «Con quella vostra fissazione per il koto mi pareva non vi foste accorto di aver appena rischiato la vita.»
Kyōka parve farsi incerto per un istante. Poi la sua espressione si sciolse in un sorriso e cambiò argomento:
«Beh, immagino di non potervi trattenere, se desiderate davvero andarvene.»
Akari restituì lo sguardo, preso ancora una volta alla sprovvista. Stava davvero per togliere il disturbo quando Kyōka riprese:
«Vorrei solo che mi permetteste di ringraziarvi in maniera opportuna. Per quello che avete fatto per me.»
«Lo avete già fatto, non ho bisogno di altro,» tagliò corto Akari. Ma Kyōka sollevò una mano in segno di diniego:
«Oh, no, non è quello che intendevo. L’onorevole Kitai ha tanto insistito affinché suonassi per voi, e la verità è che ho sempre rifiutato perché la canzone giusta non era ancora pronta.»
Akari lo fissò, confuso.
«Non avevate un blocco artistico?»
«No, non direi.»
«Componevate,» constatò Akari, atono.
«Esatto.»
«Per me.»
«Precisamente.»
Akari corrugò la fronte:
«Qualsiasi altra canzone sarebbe andata bene.»
«No, ecco,» Kyōka fece una pausa, come borbottando tra sé e sé. «E a dire il vero, non è un’opera completa neppure ora. Sono ancora molto combattuto su alcuni passaggi, vedete… ma non potete negare che quanto avete fatto per me fossero gesta degne di una ballata, di un’opera romanzata come quelle di un tempo, addirittura. Ma io lavoro solo con la musica, quindi questo è il massimo di cui sia capace.» Sollevò di nuovo la testa, interrompendo il flusso di chiacchiere. «Mi piacerebbe che la ascoltaste, almeno una volta.»
Il sospetto di Akari che Kyōka non fosse del tutto sano di mente si rafforzò in maniera sensibile. Eppure vide la sua aspettativa innocente, e non riuscì a rifiutare. Lo seguì fino a una stanzetta che si affacciava sul cortile: il musicista sedette su di un cuscino di stoffa viola, dando le spalle al giardino, e sollevò tra le mani un biwa molto più snello di qualsiasi altro Akari avesse visto nella sua vita. Il ronin rimase in piedi per un momento, senza sapere esattamente che fare di sé stesso: guardò l’altro mentre preparava lo strumento, impugnava il grosso plettro e vibrava una, due note per controllare l’accordatura.
Il Maestro vide la sua riluttanza e gli rivolse un’occhiata incoraggiante:
«Sedetevi pure», disse.
Akari lo fece. Yasha apparve tra le porte scorrevoli aperte, sedette sulla soglia, scodinzolando, impaziente spettatrice. Tutto sembrava dannatamente improbabile: una selvatica fiutatrice di malevolenza che non aveva mai dato confidenza a nessuno oltre Akari, di colpo così socievole con un perfetto sconosciuto. Un granmaestro alla corte di uno dei daimyo più potenti della regione offriva esibizioni private a un ronin di passaggio. Kyōka chinò il capo, annunciando con un sorriso umile l’inizio dell’esibizione: vibrò la prima nota, e Akari ascoltò senza pensare più a nulla.
Iniziava lenta, un ritmo rilassato: come in quegli istanti trascorsi ad ascoltarlo nella sala da tè, il rintocco delle corde allo scatto del suo polso rapiva senza alcuna possibilità di distrazione.
Quando la serenità del primo passaggio svanì in una melodia più straziante, Akari ebbe di colpo il petto vuoto d’aria.
Quella composizione parlava di lui. La sentì penetrargli dentro, sfiorare ognuna delle sue ferite con una precisione spietata. Ascoltò e riconobbe lo stesso sostenuto ritmo con cui i kami lo avevano condotto, attraverso i campi di battaglia, i fallimenti e i suoi lutti, dove sedeva in quel momento, in quella stanza di pochi tatami.
Poi Kyōka si interruppe, allontanando piano il bachi dalla cassa di risonanza. La stanza tornò immobile, un’ordinaria scatola di legno. Akari sentiva gli occhi bruciare.
«È tutto ciò che ho per ora,» si scusò l’altro. «Pensavo di intitolarla La Ricerca. Però non so ancora come sia meglio proseguire.»
Con la luce argentata della luna a rischiarargli i capelli e le spalle, il maestro musicista sembrava un’apparizione ultraterrena.
Un demone. L’inconscio di Akari rispose d’istinto al suo turbamento, anche se Yasha non gli aveva mai dato alcun segnale al riguardo e dal musicista non percepiva nessuna malevolenza. Come faceva a sapere così tanto su di lui? Non aveva mai esternato nulla a nessuno, non si era mai fidato né si era mai esposto sin da quando aveva perso i suoi fratelli.
«Chi siete?» Akari lo mormorò con voce roca.
Kyōka mise da parte lo strumento:
«Un uomo che avete salvato.»
«Cosa volete da me?»
«Nulla, se il vostro desiderio è andarvene,» il musicista esitò. Si chinò fino al pavimento in un gesto di rispetto. «Vi ringrazio per aver ascoltato la mia musica. Mi sarebbe piaciuto avere più occasioni per parlare.»
«Per poter trovare un finale alla melodia?.»
Kyōka non rispose.
Cadde un silenzio carico di disagio. Poi il bisogno di trovarsi altrove divenne insostenibile: Akari lasciò la stanza. Yasha lo seguì, guaendo piano. Mentre scappava, il ronin si aggrappò al laccio che sosteneva la faretra e l’arco. Si era ripromesso di non mostrarsi più vulnerabile, di non offrire mai più a nessuno l’elsa della spada che avrebbe potuto ucciderlo con un solo colpo ben assestato. Eppure il maestro di koto dei Kitai aveva afferrato quella spada con una naturalezza che lo terrorizzava. Lasciò la residenza, in fuga da un avversario dal quale sapeva di non potersi difendere: d’altronde, non era mai stato abile nel contrastare l’ombra di sé stesso.
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