Kyōka non poteva negare di essere incuriosito dallo scontroso guerriero che lo aveva tratto in salvo. Attento a non farsi notare, lo aveva osservato nei giorni del suo soggiorno alla villa dei Kitai. Era stato come guardare un animale randagio alle prese con la sua prima inaspettata cattura: il ronin aveva risposto con autocontrollo alla costrizione della rete, invece di provare a scrollarsela di dosso dimenandosi furiosamente. Aveva provato a celare il disagio nella rigidità della sua postura a tavola, nella piega che la sua bocca assumeva quando accettava le offerte di sake, e si era sempre ritirato nella sua stanza alla prima occasione propizia.
Forse ciò che aveva davvero intrigato Kyōka, ancor più della prontezza con cui l’uomo aveva saputo affrontare spiriti infuocati e nobiltà, era stata l’abilità con cui aveva spudoratamente mentito per omissione, senza che nessuno potesse dubitare delle sue parole. Kyōka si era seduto nella sua stanza, con lo shamisen tra le mani, provando una nota o l’altra per verificare quali dipingessero più accuratamente quella figura cupa e riservata.
Il bachi era scattato da una corda all’altra seguendo le indicazioni di un sussurro distante. La musica gli aveva parlato di quell’uomo, di tutto ciò che nascondeva dietro all’espressione truce, dietro ai silenzi schivi. Aveva scoperto che soffriva. Che aveva perso fin troppo, nonostante avesse fatto di tutto per impedirlo. E interrompendo di botto la sessione d’improvvisazione, Kyōka si era accorto di aver gli occhi ricolmi di lacrime.
Ad essere davvero sincero, non si era aspettato che quella composizione sbocciata da così forti emozioni potesse spaventare a morte il diretto interessato. In genere i suoi spettatori rimanevano ammaliati dalla sua musica, si complimentavano con lui e pretendevano di ascoltarla ancora una volta, appagando quel nocciolo di vanità che lo spingeva a condividere la propria passione con il prossimo. Lasciarsi ascoltare lo aveva sempre rassicurato, rafforzando la convinzione che la musica avrebbe assestato la sua vita in una confortante mondana ripetitività. Eppure, gli occhi di Akari si erano riempiti di un genere di terrore che la sua musica non aveva mai portato sul volto di nessun altro essere vivente, neppure in quelli di suo padre. E quest’ultimo aveva odiato le prime fasi della sua arte più di chiunque altro.
Dopo la partenza di mastro Aikawa, per Kyōka divenne difficile prendere sonno: nel buio della sua stanza continuava a vedere delle ombre proiettate sulla parete. Anche a occhi chiusi non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che lo stessero accusando, come a ricordargli di aver oltrepassato un limite proibito, o di aver fallito un incarico di cui non comprendeva le condizioni.
«Quando mi dirai cosa è successo in quella sala da tè?» Il nobile Akihito aveva preso a chiederlo con insistenza, ignorando i tentativi di Kyōka di eludere la domanda.
«Non ricordo molto,» si scusò una sera Kyōka, aprendo e chiudendo un ventaglio di carta in un gesto distratto. «Sono solo certo di aver lasciato indietro il cimelio dei Kitai. Il koto sacro di Benten.»
«Ma vorrai almeno dirmi da dove sia arrivato il ronin? Stava spiando la scena, forse? Dov’era nascosto?»
«La mia attenzione era del tutto assorbita dal bruciare inesorabile del koto, mio signore.»
«Non pensi si sia comportato in maniera sospetta? È anche sparito senza dire nulla, dopo tutto ciò che gli abbiamo offerto per ringraziarlo… E se fosse una spia?»
Kyōka non riuscì a trattenere il proprio divertimento all’idea:
«Posso assicurarvi che non avesse secondi fini.»
«E come fai a esserne certo?»
«Gli si leggeva tutto in volto. Non vedeva l’ora di togliere il disturbo. Quel samurai non ha la stoffa per fare il doppio gioco.» Kyōka sospirò. «Una sola colpa gli riconosco, ed è quella di aver ignorato il koto.»
Il volto di Akihito si accese di interesse:
«Allora potrebbe essere un Cacciatore?»
Kyōka assunse un’espressione di pura indignazione:
« Un vero Cacciatore avrebbe riconosciuto il valore di un oggetto sacro come il koto benedetto dalle mani di un dio!»
«Perché continui a cambiare argomento?»
«Quello strumento era un capolavoro unico. Insostituibile.»
«Forse c’era tempo per preservarne uno solo e il ronin ha dovuto fare una scelta.»
Kyōka emise una breve risata, battendo il ventaglio chiuso nel palmo della mano:
«Mi lusingate.»
«Dico solo la verità,» il tono di Akihito era grave. «Inizio a chiedermi se non sia il tuo talento ad attirare i demoni che ti perseguitano.»
«Chissà…» Kyōka sospirò. Non era un argomento di cui gradisse conversare. Una notte, annebbiato dall’alcol di un po’ troppi sorsi di sake, Kyōka aveva raccontato ad Akihito di alcune serate trascorse all’addiaccio, quando aveva vagato come artista di strada prima di ottenere il favore dei Kitai. Di come gli spettri si fossero fermati ad ascoltarlo quando aveva poggiato le labbra sul suo flauto traverso. Akihito aveva preso particolarmente sul serio quel racconto, nonostante Kyōka, da sobrio, avesse fatto di tutto per smentirlo. Nonostante le sue buone intenzioni, il giovane signore non sapeva di cosa stesse parlando.
«Pensavo di chiedere a mio padre che ti venisse affidata una guardia personale.»
La proposta di Akihito fece sorridere ancora Kyōka:
«Suvvia…»
«Qualcuno che sappia come gestire i demoni.»
«Non credo sia necessario, onorevole Akihito. Davvero. Non capita così spesso di vedere demoni a Setsukyo.»
Il tono dell’altro uomo si fece di colpo imperioso:
«Questa volta sei sopravvissuto per un semplice colpo di fortuna, Kyōka. Eppure mio padre continua a rifiutarsi di contattare i Cacciatori.»
«E potete biasimarlo?» Kyōka scosse il capo. «Con le orde di demoni a ruota libera per il paese, i Cacciatori avranno sicuramente ben altro di cui preoccuparsi. Sono un semplice musicista nascosto nel quieto nord.»
« Vogliamo parlare di quello che è successo l’inverno scorso? Non è forse accaduto mentre suonavi il tuo flauto?»
L’espressione di Kyōka si spense di colpo, e le parole per ribattere gli sfuggirono.
« Solo i Cacciatori e l’Onmyōdō sanno come contrastare i demoni,» riprese Akihito. «Sono convinto che quell’Aikawa sia stato addestrato da qualche gruppo di Cacciatori.»
Il musicista guardò il proprio patrono, stupito:
«Non avrete pensato di poter incaricare mastro Aikawa?»
«Dico che ci è capitata un’occasione. Quell’uomo ti ha tirato fuori da un nugolo di demoni infuocati, senza farsi un graffio: non c’è dubbio sulla sua competenza. Aveva con sé delle armi benedette, forgiate appositamente per combattere di demoni.» Vedendo che Kyōka esitava, aggiunse: «Credevo ti avesse fatto una buona impressione».
«Certo, mi ha salvato la vita. Ma non gli avrei mai chiesto di restare.»
«E perché mai? Non si è mai visto un ronin che rifiuti un incarico prestigioso. Presso il clan Kitai, poi!»
Kyōka tacque. Paradossalmente, se la sua musica non mentiva e non lo avesse già fatto scappare, era molto probabile che una proposta come quella di Akihito avrebbe fatto fuggire mastro Aikawa con due giorni d’anticipo.
«Con il vostro matrimonio alle porte, sicuramente il daimyo avrà delle faccende più importanti a cui pensare,» concluse Kyōka. «Mi state prendendo troppo a cuore, nobile Akihito.» Il tono era privo di insinuazioni, ma Akihito si rabbuiò:
«Forse puoi continuare ad ignorare la cosa, ma il fatto è che è proprio così. Ti ho già preso a cuore da tempo.»
Il giovane signore strisciò i piedi sul legno e se ne andò.
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Kyōka minimizzava, sorridendo, scacciando l’apprensione dei suoi patroni con una superficiale spavalderia. Poteva capitare a chiunque, in quell’epoca difficile, di sperimentare incontri spiacevoli. Che fossero spettri inquieti o samurai angosciati, o sciacalli sfuggiti alle battaglie giù al sud, faceva poca differenza. E nonostante tutto, anche se sia l’onorevole Akihito che suo padre presero ad insistere sull’idea di procurargli una guardia personale, Kyōka continuava a far notare loro che sin da quando il ronin se ne era andato, non si erano verificati eventi di particolare rilevanza. Perché, naturalmente, non erano al corrente di ciò che Kyōka sapeva nascondere fin troppo bene.
Quando si addormentava dopo una giornata trascorsa a comporre con risultati particolarmente positivi, la notte si riempiva di ombre. Le sentiva stendersi affianco a lui sul futon, sfiorargli con lentezza la spalla e sospirare forte contro il suo orecchio. JingHuā, lo chiamavano alcune, con il nome che aveva avuto in quella che sembrava un’altra vita, riaprendo porte che avrebbero dovuto rimanere serrate. Kyōka restava immobile, in uno stato confuso di dormiveglia che gli impediva di scostarsi, di aprire gli occhi o parlare. Altre volte il tocco leggero di quelle ombre scivolava lento verso lo spigolo del mento, gocciolava fino all’incavo tra le clavicole con il sudore. E quando si risvegliava, madido e frastornato, Kyōka si ritrovava da solo, con il fantasma di una morsa ghiacciata avvolta con forza attorno alla gola.
In quegli istanti di solitudine, rivalutava per qualche momento le proposte di protezione dei Kitai. Poi tornava a non pensarci, si riaddormentava, e al mattino sapeva di non dover temere nulla non appena risincronizzava lo scatto delle dita al vibrato delle corde. Bastava ignorare tutto il resto.
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