Quando non suonava per i suoi patroni o per i loro ospiti, si dedicava all’esercizio con una disciplina appassionata. Anche se quando si avvicinava a uno strumento, che fosse il koto, lo shamisen, o il flauto traverso, riusciva raramente a suonare senza un pubblico, che lo volesse o meno.
A volte veniva a trovarlo un signore ricurvo: immobile sul bordo del laghetto nel cortile, ascoltava i suoi esercizi senza mai dire una parola. Al mattino, una giovane madre accompagnava il figlio tenendolo per mano verso una meta indefinita. Il bambino indicava Kyōka, strattonava il kimono della madre per farla sedere, poi al terminare della melodia la famiglia lo ringraziava con un inchino, i loro piedi invisibili contro il terreno. Quando non riceveva quel genere di visite, la sua stanza si svuotava di ogni suono e anche la natura all’esterno si zittiva, con il fiato sospeso, a ricreare l’identica stasi estatica che gli era capitato di provocare tra i suoi spettatori. Lasciava che il koto fosse l’unico a parlare, sentendosi al tempo stesso costantemente osservato.
In certe altre occasioni, l’esterno si faceva terribilmente chiassoso, terrificante. In quei momenti non poteva fare a meno di pensare a sua madre, e lo attanagliava una paura feroce. Continuare a suonare imperterrito era l’unico modo per estraniarsi e ritrovare l’equilibrio.
«Maestro Kyōka,» a volte, una donna di nome Koe gli si aggrappava alla manica del kimono quando iniziava il tramonto. «Non sarebbe così gentile da suonare per me?»
Lui la respingeva con gentilezza, e lei dopo qualche giorno tornava con le stesse domande. Kyōka le permetteva di ascoltare i suoi esercizi, e lei si adagiava contro di lui, cercava di attirare la sua attenzione.
«Voi uomini siete tutti così crudeli,» sbottò a un tratto lei, dopo che per l’ennesima volta Kyōka non reagì all’inflessione suadente della sua voce. «Ci rapite il cuore e poi ve ne andate, e nessuno che si penta mai davvero.» Le sfuggì un singhiozzo, mordendo la stoffa del kimono tra i denti anneriti di carbone, mentre Kyōka continuava a incastrare le dita tra le corde del koto.
«Mi spiace si senta a questo modo, signorina,» commentò, senza guardarla.
«Avevo un marito, sa?,» riprese Koe, tornando composta sui talloni. «Scappammo insieme perché la mia famiglia voleva darmi a un altro. Ci siamo ritirati da soli sulle montagne. E per un po’ mio marito è riuscito a sostenerci entrambi di sola caccia, prima di decidere di andare a cercare lavoro in città.»
La donna parlava e le mani di Kyōka trovavano la loro strada sulle corde. Una melodia d’istinto che disegnava la sagoma di una capanna appollaiata sulla sponda di un ruscello, alla base di una piccola cascata, una parete di pietra ricoperta di licheni umidi a malapena baciati dalla luce del sole. Kyōka chiuse gli occhi, lasciando che Koe tornasse ad appoggiarsi alla sua spalla.
«Poi un giorno non è più tornato. L’ho atteso per due giorni interi, perché sapevo che a volte il lavoro in città poteva trattenerlo più del dovuto. E l’ho atteso anche quando ho saputo che il villaggio lungo la strada era stato raso al suolo dalle incursioni dei Generali Oni.»
Il koto tracciò con rintocchi cupi la scena disordinata di un attacco al galoppo e una fuga, di donne che gridavano con i figli sulla schiena ma venivano schiacciate dagli zoccoli dei cavalli, afferrate da artigli demoniaci, le case sfiorate dalle torce e poi le fiamme.
«Ho atteso anche allora. Perché mio marito aveva promesso che sarebbe tornato. Ho atteso per anni. Anche dopo essere stata trovata da quel gruppo di samurai senza signore…». Koe soffocò ancora la voce contro Kyōka. «Sa quanto è crudele il destino di una moglie abbandonata? Non ho forse il diritto di pretendere una carezza, che qualcuno si prenda di nuovo cura di me?»
Il fluire della musica del koto iniziò ad accelerare. Delineò i confini di un campo di battaglia, di una truppa di cavalleria al galoppo nel fango e nella neve, gli stendardi dei due daimyo rivali flagellati violentemente dal vento. I samurai gridavano, estraevano le spade, incitavano gli alleati per intimidire i nemici. Tra di loro un uomo in armatura blu, con una fascia bianca legata attorno alla fronte che svolazzava come una scia impazzita, distese il braccio per incoccare una freccia. Un movimento rapidissimo, con la precisione di un addestramento ferreo, e l’attenzione di compositore di Kyōka fu attirata da quel singolo gesto, da quel piumaggio che sfuggiva dalle dita dell’arciere per andare fluidamente a segno. La storia della signorina Koe virò bruscamente verso La Ricerca, ricalcandone le note, riprendendo del tutto il controllo dello strumento. Alla voce della donna se ne sovrapponeva un’altra, più insistente, più lontana.
A quel punto Kyōka fu costretto a fermarsi. Sentendosi sovrastata da qualcun’altro, Koe si impose su di lui e lo obbligò a distendersi sul fianco. Gli si avvinghiò come a imprigionarlo nel proprio abbraccio, calda e gelida al tempo stesso. La scollatura del kimono le scivolò lungo la spalla, esponendo la pelle bianchissima e il livido bluastro che le circondava il collo in una collana tatuata. Kyōka ignorò quel segnale inquietante, come faceva ogni volta. Distese una mano per tenerla a distanza.
«Mia signora, la prego,» si scusò. «È una donna sposata, non è così?»
«Mio marito non è mai tornato,» la voce di Koe era diventata tremolante. «Non potrebbe abbracciarmi, solo per un poco? È così difficile per lei innamorarvi di me, anche solo per una notte?»
«Mi dispiace per quanto le è accaduto, non mentirei mai su questo. Ma sa anche che non posso darle ciò che vorrebbe. Continuerò a ripeterglielo.»
Koe iniziò a piangere. Lui le carezzò piano la testa, senza aggiungere nient’altro. Poi lei lentamente si sollevò:
«Voglia almeno suonare per me, ancora per un poco.»
E dopo aver sistemato il kimono che lei gli aveva sgualcito, come ogni notte con chiunque altro venisse a fargli visita, Kyōka la accontentava. Quando poi riapriva gli occhi, della signorina Koe non v’era più traccia.
A volte tornava su La Ricerca, con una leggera titubanza, mugolando la melodia incompleta. Sperava di ricevere qualche immagine, che l’ispirazione gli lasciasse concludere il pezzo. Ma più si sforzava di pensare al ronin, più l’eco della voce che cantava la sua storia si faceva lontana.
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