La primavera aveva portato un tepore dorato che all’alba donava ai tetti un fascino singolare. Dopo gli eventi del festival di inizio stagione, lo stradone principale di Setsukyo iniziò a colorarsi di colori soffusi.
I ciliegi fiorivano e sfiorivano una sola volta l’anno, e il breve intervallo di tempo rappresentato dal loro ciclo vitale era ritenuta l’espressione massima della bellezza: sbocciavano per ricordare al mondo che nonostante altrove imperversasse la guerra, la vita continuava, effimera e bellissima, anche nei periodi più bui della storia. Le sorelle dell’onorevole Akihito iniziarono a farsi irrequiete affinché le si portasse a vedere i ciliegi fuori città, tra le colline ai piedi del santuario Kamidori: per la famiglia Kitai era sempre stata una tradizione, anche prima che Kyōka fosse accolto dai suoi patroni, due anni prima. Di conseguenza, il musicista si preparò a intrattenere la famiglia e i suoi nobili ospiti con dei pezzi adatti all’occasione.
Infatti, quando giunse voce che i ciliegi attorno al santuario stavano fiorendo, cospargendo il cielo del loro pianto rosato, a Kyōka fu chiesto di partecipare all’hanami. Salì sulla stretta portantina privata che Akihito gli aveva donato l’anno prima nonostante un semplice artista non avesse di certo il rango per ricevere un simile trattamento di favore. E fece finta di non sentire l’oppressione costante dovuta ai talismani intrisi di inchiostro e caratteri sacri che furono distribuiti al gruppo per tenere lontani i demoni lungo il cammino.
Seduto su di una stuoia all’ombra di un ciliegio che lo ricopriva dei suoi fiori morenti ad ogni sospiro della brezza, suonò per i partecipanti al meglio delle proprie possibilità. Il suo nobile pubblico ammirava lo spettacolo delle fronde cariche di bianco e rosa sorseggiando tè e sake, condividendo dolci e spuntini salati, in un’orchestra variopinta di ricche sete nelle pieghe dei loro kimono. Dimentichi dei pericoli nascosti nella natura attorno a loro, sembravano figure fluttuanti in un’illustrazione di un’altra epoca.
In quell’atmosfera gioviale, costretto a sedere con suo padre e le sue sorelle, Akihito non staccò gli occhi da Kyōka neppure per un momento. Il musicista non seppe cosa fosse più soffocante tra la sua apprensione e i talismani. E tutto divenne ancora più increscioso quando le dame presenti iniziarono a richiedere la sua compagnia tra un’esibizione e l’altra, animate dalla ormai familiare impazienza di conoscerlo che in molti mostravano dopo aver ascoltato la sua musica. A quel punto, le occhiate del nobile erede si fecero febbrili.
«Suonate uno strumento così particolare… non lo avevo mai visto prima.» Una fanciulla si sporse verso lo shamisen, provò a toccare la pelle della cassa di risonanza. «Dove lo avete trovato?»
«È un dono di mio padre,» spiegò Kyōka, seppur controvoglia. «Viene da terre lontane.»
«Ha un suono incantevole, non trovate?», aggiunse una seconda. «Il daimyo Kitai è davvero un uomo di larghe vedute. Non sempre è sicuro investire sulle novità.»
«Lo ammiro molto,» Kyōka annuì. «E gli sono immensamente grato.»
«Siete un uomo misterioso, sapete?» Lo disse una dama dalle graziose mani immacolate, affondando le dita nella lunga chioma corvina di Kyōka senza aver chiesto il permesso. Lo carezzò come avrebbe fatto con una creatura insolita.
«Non mi definirei tale, mia signora,» replicò lui.
«Avete i capelli così belli, sono quasi invidiosa,» osservò un’altra, ottenendo i divertiti consensi delle altre donne riunite. «E ogni volta che vi vedo siete sempre lo stesso. Ancora così giovane…»
«Immagino che alla vostra età starete iniziano a pensare di sposarvi. Possibile che il vostro signore se ne stia già occupando?», borbottò un’altra donna, e la fanciulla al suo fianco sobbalzò:
«Madre!» Il rossore delle guance diventò visibile anche sotto il velo di trucco bianco.
Kyōka rispose con una breve risata, senza commentare. Sentiva su di sé lo sguardo dell’onorevole Akihito e non poté fare altro che allontanare la mano della donna ancora intenta a giocare con i suoi capelli, con la dovuta delicatezza.
«Le vostre parole mi lusingano, ma uno come me non è certo degno di fanciulle del vostro lignaggio.. Le signore risero, nascondendo i volti dietro alle maniche o ai ventagli.
A quel punto l’unico modo per far sì che Akihito si rilassasse fu di riprendere a suonare. Kyōka impugnò lo shamisen, unì la voce al fluire delle note, ottenne le acclamazioni composte degli ascoltatori. Concesse anche rivisitazioni di alcune canzoni straniere quando una delle dame accennò alla sua formazione all’estero, indicando giocosa i fermagli di giada che Kyōka era solito indossare tra i capelli. E sebbene il giovane principe parve rasserenarsi, Kyōka non riuscì a scuotersi di dosso una sottile inquietudine – il sibilo del vento si insinuò tra le note del suo shamisen, come l’eco di un ululato addolorato. Aveva imparato a riconoscere quel genere di irrequietezza: era seguito, e se da uomini o spettri non faceva differenza.
Chiese il permesso di ritirarsi per un momento quando iniziò a calare il sole, e i servitori accesero le lanterne per proseguire la festa anche sotto la luce rannuvolata della luna. Portò con sé lo shamisen e raggiunse l’ampia sporgenza che si affacciava a valle. Setsukyo si distendeva maestosa sotto di lui, circondata di mura squadrate e punteggiata dai propri tetti: sembrava insignificante da lassù, e distendendo il braccio Kyōka poteva addirittura racchiuderla nel palmo di una mano, afferrandola tra le dita con i raggi del tramonto che ne tingevano di rosso i contorni. Sedette sotto i rami appesantiti di fiori di un ciliegio solitario, chiuse gli occhi e ascoltò il vento, pizzicando a tentoni le corde dello shamisen. Lasciò che il suono netto delle note distendesse la tensione con la magnifica imperfezione che creavano dal nulla, frustando l’aria primaverile.
Quando riaprì gli occhi, consapevole di non essere più solo sulla collina, si ritrovò a fissare quelli a mandorla di un’akita dalla pelliccia scura. Lo osservava con la testa chinata di lato, e Kyōka la riconobbe all’istante. Mettendo da parte lo shamisen, lasciò che la nuova arrivata lo raggiungesse, gli annusasse entusiasta le vesti, gli saltasse sulle spalle per leccargli la faccia.
«Yasha continuava a voler tornare indietro,» annunciò una voce bassa alle sue spalle, il gorgoglio dell’acqua sotto la cupola di una caverna. «Non l’ho mai vista intestardirsi così tanto su qualcosa.»
Quando Kyōka si voltò, il ronin era addossato al tronco dell’albero fiorito, si manteneva a distanza.
«Forse non voleva perdersi lo spettacolo dei ciliegi,» azzardò Kyōka. Anche all’ombra dei rami in movimento, l’espressione del ronin era torva:
«No,» controbatté. «Non ci importa un accidenti dei ciliegi.»
Un commento deludente – o forse completamente adeguato. Accigliandosi appena, Kyōka distolse lo sguardo.
«Pensavo che la mia musica non fosse stata di vostro gradimento,» riprese dopo un momento di silenzio. «Perché avete lasciato che Yasha vi riportasse qui?»
In un primo momento, l’altro uomo non commentò.
«Non mi temete?», insistette ancora Kyōka, lanciando un un’esca con fare distratto.
«Se ci fosse davvero motivo di temervi, Yasha non si ostinerebbe a voler tornare.»
L’akita commentò con un suono gorgogliante, acciambellandosi ai piedi di Kyōka.
«Questo mi fa piacere,» confessò il musicista. L’esca non era stata raccolta.
Il ronin a quel punto si chiuse in un silenzio cupo. Quando Kyōka si voltò ancora a guardarlo, si accorse che l’uomo lo fissava dall’alto in basso, gli occhi affilati ridotti a fessure, le braccia incrociate sul petto. Il peso del suo sguardo scosse Kyōka in un tremito: nonostante il chiaro distacco, sembrava pronto a ucciderlo, lì e ora, senza farsi scrupoli. Forse sarebbe stato quello il prezzo della sua intrusione nella sua vita, quella la verità nascosta dietro alle cicatrici che gli segnavano il volto. La voce che gli aveva suggerito La Ricerca aveva cercato di avvertirlo: quest’uomo non perdona, quest’uomo non ha pietà, quest’uomo ormai sa solo uccidere. Soprattutto quelli come te.
«Sapete, i miei patroni hanno spesso parlato di ammettervi al loro servizio,» Kyōka esordì ancora, cacciando via quel presentimento.
«E a che scopo?», indagò l’altro, sospettoso.
«Per lavorare come mia guardia personale.»
Il volto del samurai si contrasse in una sorpresa irritata:
«Cercatevi qualcuno con il giusto addestramento,» controbatté. « Uno come me non è degno di un incarico da Cacciatore.»
«E perché mai?»
«L’ho dimostrato in diverse occasioni.»
«Come quando avete scacciato gli spettri di fuoco, salvandomi la vita?»
Gli occhi di Akari si accesero, diffidenti:
«Li avete chiamati “spettri” di proposito?», provò a interrogarlo, ma Kyōka lo ignorò:
«Per esempio, i miei signori si chiedevano se non aveste nulla a che fare con qualche gruppo di Cacciatori di demoni?».
Akari scosse il capo.
«Se faceste loro il mio nome, potrebbero fornirvi tutti i vari motivi per cui non sarei adatto all’incarico che proponete.» Non era bravo a mentire: si limitava a non negare, sperando che l’interlocutore non se ne accorgesse.
«Allora non li contatteremo,» Kyōka si strinse nelle spalle.
«Potreste provare a essere meno irresponsabile?»
«I miei signori vi hanno visto solo avere successo. Non sanno niente di voi.»
«Mentre voi sapete tutto, non è vero?»
Kyōka esitò. La minaccia era ancora viva, nel vibrare apparentemente atono della voce del ronin.
«Non tutto,» calibrò il peso delle parole prima di aggiungere: «So che siete alla ricerca di qualcosa che non siete ancora riuscito a trovare».
Il ronin non parlò. Kyōka insistette:
«Penso che qui non abbiate ancora cercato, non è vero?».
Ancora una volta l’uomo non rispose. Poi si decise ad allontanarsi dall’albero; andò a sedersi vicino a Yasha e l’akita mosse immediatamente il muso per accoglierlo, poggiando la testa tra le sue ginocchia incrociate.
«Chi vi ha parlato di me?»
«La musica,» rispose Kyōka, con un sorriso impertinente. Akari gli rivolse un’occhiata bieca.
«Sarei curioso di sapere quanto nei dettagli mi conosciate,» riprese. «Su alcune cose che ho fatto in passato. Se la verità venisse a galla, sarei disprezzato, non mi chiedereste di certo di restare con voi. Nessuno capirebbe il vero motivo delle mie scelte.» Esitando, il ronin si interruppe. «Non mi piace parlarne.»
«Parlarne non è necessario, infatti. E in ogni caso non vi giudicherei, mastro Aikawa,» disse Kyōka, e il suo tono si fece inconsciamente più grave. «D’altronde, ognuno di noi ha dei segreti che sarebbe meglio gli altri non conoscessero.» Le sue parole risuonarono di un sottinteso che per nessun motivo avrebbe dovuto risalire in superficie. Non gli fu chiaro se l’altro lo avesse colto o meno.
«Potete chiamarmi Akari,» proruppe a un tratto il ronin, a bassa voce. « Ma non aspettatevi che vi parli di me per facilitarvi nelle vostre composizioni.»
Kyōka accennò un sorriso:
«Non è mia intenzione fare domande, mastro Akari».
Calò su di loro una calma composta, e il tremore inquieto che aveva scosso Kyōka fino a quel momento fu soffocato gradualmente fino a svanire del tutto. Akari sembrava più rilassato, come sovrappensiero. Poggiò una mano tra le orecchie a riposo di Yasha e l’akita non protestò alle carezze.
Kyōka, riprendendo piano a improvvisare una melodia, si domandò che genere di seguito, da quel momento in poi, gli sarebbe stato suggerito dalle voci nella notte.
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