Akari non era del tutto certo del motivo per cui fosse tornato. Yasha si era offesa e aveva continuato a trattarlo con sufficienza. Sin da quando erano diventati inseparabili non era mai capitato che si trovassero così tanto in disaccordo su qualcosa. Lei sapeva che lui non gradiva i luoghi affollati, e sceglieva i sentieri montani meno frequentati. Sapeva che lui dava la caccia ai demoni per ritrovare i suoi fratelli: compensava con il suo fiuto la sensibilità spirituale che ad Akari mancava, e lo avvertiva quando percepiva delle entità potenzialmente pericolose, o qualsiasi indizio potesse essergli utile. Solo questa volta si era intestardita al punto da rifiutarsi di continuare il viaggio fino a che il ronin non aveva ceduto e l’aveva seguita indietro a Setsukyo, in quella città che i demoni sembravano evitare come un luogo sacro alla dea Amaterasu.
Anche quando Kyōka lo accompagnò dai suoi patroni, e i membri della famiglia Kitai lo accolsero con una familiarità che continuava a metterlo fortemente a disagio, Akari non capiva come mettersi al servizio di un altro daimyo avrebbe potuto mandare avanti la sua ricerca. L’unico indizio a cui aggrapparsi era il musicista, e l’assurdità di quella melodia composta usando la sua vita come materia prima.
Gli fu assegnata una stanza più grande, lungo lo stesso corridoio in cui alloggiava il suo incarico. Avrebbe portato i simboli del suo retaggio alla cintura, le due spade che aveva ereditato dalla sua vita passata, senza che nessuno potesse rinfacciargli di non esserne degno: avrebbe vegliato sugli esseri umani della residenza come se fosse stato un Gatto. Non sembrava avere importanza il fatto di non esserlo mai diventato per davvero.
Come Kyōka aveva promesso, non gli furono mai fatte domande dirette in merito, ma sembrava opinione comune che Akari avesse ricevuto un addestramento da Cacciatore. Ciò che turbava il ronin era ricevere tanta fiducia gratuita pur essendo ben consapevole di ingannarli.
Si era addestrato con i Gatti per tre anni prima di essere congedato: non aveva mai ricevuto la maschera da nekomata che lo avrebbe identificato come parte del gruppo di Cacciatori – e d’altronde non poteva certo andare in giro a sbandierare il proprio apprendistato fallito dopo aver giurato di mantenere il segreto sulla loro esistenza. Non era un caso che avesse Yasha al suo fianco, a fiutare la presenza delle creature maligne al suo posto: se la famiglia Kitai fosse stata meno precipitosa, se avessero chiesto il parere di qualsiasi sacerdote del santuario Kamidori, si sarebbero accorti che le sue inadeguatezze nel campo della caccia non si limitavano solo a una debole predisposizione spirituale.
Nonostante questo fondamentale fraintendimento, l’onorevole Akihito dimostrava il proprio entusiasmo in maniera quasi inopportuna. E Kyōka pretendeva di scacciare tutte le preoccupazioni di Akari con un gesto distratto della mano, come se la situazione fosse frutto di uno sviluppo del tutto naturale delle cose. Non sapeva se il comportamento dei Kitai fosse causa o conseguenza del fatto che avessero accolto tra loro uno strambo come lui. E d’altronde dedicarsi all’arte in tempi di guerra sembrava già di per sé una follia.
«L’unica spiegazione che potrete mai ottenere è una: ho parlato in vostro favore,» disse Kyōka un giorno, per mettere a tacere una volta per tutte i suoi dubbi.
«Ed è stato sufficiente?».
«A quanto pare. Si assicurano che i loro investimenti non finiscano masticati dai demoni, solo questo. E voi avete dimostrato di sapere come combatterli.»
«Pensate di essere solo questo per loro?», domandò. «Un investimento?».
«Sto parlando degli splendidi strumenti di cui mi permettono di usufruire». Sollevando un braccio mostrò ad Akari l’ampia manica del kimono, dove su seta viola spiccavano dei bellissimi ricami d’argento. «L’Onorevole Akihito non fa che riempirmi di doni. Per quanto io mi sforzi di convincerlo su quanto alcune cose non siano necessarie, lui è fatto così. Esagera sempre su tutto».
Akari lo fissò:
«Quindi non temete possa succedervi qualcosa?».
«Non capisco perché dovrei».
Detto da un uomo a cui era stata appena affidata una guardia personale, sembrava un completo rifiuto di guardare in faccia la realtà.
«E allora perché avete insistito a tenermi con voi?».
Kyōka gli sorrise con fare complice:
«Con il vostro permesso, voglio finire La Ricerca».
Akari incrociò le braccia al petto, preferì non commentare. Che assurdo impiccione.
Non capiva ancora con esattezza cosa fosse a rendere Kyōka così singolare. All’inizio si era sentito violato, e dopo anni di totale isolamento, l’idea di aver condiviso suo malgrado i suoi segreti era stato destabilizzante. Forse la chiave d'interpretazione necessaria a comprenderlo si celava proprio in quella sua ispirazione così invadente, ma per il momento Akari non poteva fare altro che sopportare le sue stranezze e fidarsi del fiuto di Yasha.
Tra le altre cose, venire sbalzato di colpo in quella bolla di pace fu straniante. Vivere nei grandi centri abitati non era mai stato pericoloso come in quegli anni: il paese brulicava di demoni come mosche su di un campo di battaglia. Aizzati dal sangue versato durante le guerre tra gli esseri umani, i grandi Oni saccheggiavano i centri abitati con le loro orde di seguaci. Ma dopo l’episodio degli spettri di fuoco, Setsukyo era stata silenziosa e tranquilla, immobile. Come sotto un incantesimo protettivo. Anche su questo Kyōka aveva idee singolari:
« Non dovreste sentirvene sollevato? Significa che non dovrete mai estrarre la spada e potrete vivere in panciolle».
Akari lo ascoltava blaterare, scettico:
«In altre regioni del paese, anche i normali spettri si trasformano in demoni per la semplice influenza del sangue sparso altrove. Qui a malapena vedo spettri manifestarsi all’occhio umano».
«Forse gli spiriti che popolano la città non hanno davvero nessun motivo per uscire allo scoperto. Nessun conto in sospeso…» Si fece più distratto ed evasivo del solito prima di aggiungere, «d’altronde qui la guerra non è ancora arrivata».
«Eppure si manifestano attorno a voi. Per quanto ho visto, rischiando di uccidervi,» gli fece notare Akari, per l’ennesima volta.
«Magari è colpa mia. Non apprezzano ciò che compongo. Hanno modi particolari di gettare pietre ai musicisti cialtroni». Kyōka si lasciò andare in una risata incontrollata, abbassando la ciotola e le bacchette da cui stava mangiando il pranzo. Akari non sorrise:
«Vedo che siete abbastanza ferrato in materia. Sapete che gli spiriti non sono necessariamente demoni, e che gli spettri non si manifestano all’occhio umano senza avere intenti maligni».
Kyōka si fermò, come fulminato da una realizzazione, e il suo sguardo si fece vago:
«Ah, è così?». Tornò al suo cibo. «Naturalmente le mie solo supposizioni».
Akari non aggiunse altro, limitandosi a osservarlo mentre svuotava la ciotola. Kyōka poteva fingere si trattasse solamente di intuizioni, ma Akari aveva studiato tra i Gatti. E parlare con lui di demoni e spettri, argomenti di cui un semplice musicista avrebbe dovuto capire ben poco, era come ascoltare una conversazione tipo tra Masahide e i suoi apprendisti Cacciatori. Con l’unica differenza che l’allievo poi rinnegava i propri meriti, con una semplicità che Akari non trovava affatto rassicurante.
Una volta Kyōka si presentò nella sua stanza di primo mattino, spalancando le porte scorrevoli senza nessun riguardo né per l’ora né per l’eventualità che Akari potesse ancora essere addormentato.
«Il fiume a sud di Setsukyo è ricoperto di petali di ciliegio. Devo vederlo prima che la corrente li faccia scorrere via».
Già sveglio da un’ora buona, Akari gli rivolse la sua disapprovazione in un’occhiata:
«I vostri signori si allarmeranno se non vi troveranno nella magione al risveglio».
«Allora vi incarico di assicurarvi che torneremo entro allora».
Quando Akari preferì non dargli la soddisfazione di un’ulteriore risposta, Kyōka si fece impaziente:
«Mi accompagni o resti qui?».
Sembrava una richiesta quasi infantile, priva di qualsiasi rispetto nel linguaggio, ma il daimyo aveva dato il suo consenso a che Akari assecondasse ogni capriccio dell’artista. Mandò giù l’ultimo boccone della colazione e infilò le spade alla cintura. Seguì Kyōka fino alle stalle dei Kitai, richiamando Yasha dal cortile con un fischio. Presero in prestito due cavalli che Akari sellò in fretta, e Kyōka, lo shamisen avvolto in un fagotto sulla schiena, cavalcò come se da quella fuga mattutina dipendesse la sua vita.
Trovarono il fiume brillante di bianco e rosa, con il sole appena nato che lo tempestava di riverberi sfavillanti. Discesero la sponda scoscesa, ai piedi delle imponenti impalcature che sorreggevano un alto ponte sospeso – Akari con disinvolta cautela, Kyōka in una corsa che avrebbe potuto rompergli l’osso del collo, Yasha con l’entusiasmo di una cucciola. Una volta in fondo al declivio, il musicista sedette sulla riva, svolse lo shamisen e iniziò a suonare note apparentemente a caso, estraniandosi dal resto del mondo. Ad Akari non restò che sedere a poca distanza.
Sul ponte sopra di loro vide passare alcuni venditori ambulanti, un monaco nella sua veste ascetica che sgranava un rosario di legno. Lanciavano loro delle occhiate curiose, ascoltavano da lontano le improvvisazioni di Kyōka, ma non li disturbarono mai. Con Yasha acciambellata al suo fianco, che si godeva il sole dopo aver giocato a rincorrere i sassolini e i petali di ciliegio, Akari si soffermò poi a osservare il suo nuovo protetto. Nonostante fosse un giovane imponente e molto più alto della media – Akari stesso doveva sollevare appena la testa per guardarlo in volto – il suo profilo aveva caratteri delicati. Da sotto le ciglia brillava un viola glicine raro e magnetico. Ogni sua azione trasudava un fascino del tutto fuori dall’ordinario, ma era difficile isolare esattamente cosa lo definisse tale. Ignorando il monito silenzioso imposto dalla sua concentrazione sullo shamisen, Akari non si trattenne:
«Raccogliete i capelli come una cortigiana di basso rango per scelta consapevole o è solo un’ennesima stravaganza senza spiegazione?».
Kyōka rispose senza smettere di strimpellare:
« Voi li raccogliete in una treccia perché i vostri avversari possano tirarla e buttarvi ai loro piedi quando combattete?».
Akari strinse le labbra. Gli era successo varie volte che i compagni tra i Gatti usassero proprio quella tecnica per batterlo in duello. Era l’acconciatura preferita di Mei. Lo pensò solamente.
«A ogni modo sono cresciuto nel Paese di Mezzo. Lì questa acconciatura è del tutto normale per un giovane forte e prestante come me». Kyōka si riferiva alla cascata di capelli sciolti che gli inondava la schiena, e all’alto chignon in cui spesso infilava fermagli a dir poco bizzarri. «Prima che me ne andassi, mio padre continuava a obbligarmi a legarli in un unico nodo in cima alla testa. “Ora sei un uomo”, ripeteva. Che pedante. Ma penso che un artista debba pettinarsi e vestirsi come più lo aggradi. E ho la scusa per indossare decorazioni di gemme – dovrò pur fare un’impressione regale di fronte ai nobili ospiti del daimyo,» stava chiaramente divagando, ma alla fine sembrò ricordarsi di Akari e schioccò la lingua, seccato. «Comunque ora lasciatemi comporre».
Akari aveva smesso di ascoltarlo qualche frase prima, quindi non si curò del suo tono acido. Guardò lo scorrere lento del fiume e passò una mano attorno al collo di Yasha, carezzandola piano.
Le note senza apparente ordine che provenivano da Kyōka rintoccavano sul terreno e sul pelo dell’acqua, surreali come il galleggiare dei petali sulle sue leggere increspature. Akari non ricordava se quello fosse il tipo di vita che aveva condotto prima della guerra o se si trattasse piuttosto di uno stato ideale d’oltre vita.
«Forse possiamo concedercelo,» mormorò, quando Yasha iniziò a leccargli pigramente il palmo della mano. Almeno fino a che fosse durato. Alzò gli occhi al cielo, e in quel momento l’insieme di nuvole e azzurro gli parve identico a quante altre volte si fosse fermato a compiere lo stesso gesto, quando la sua vita non si era ancora trasformata in un inferno.
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Jimbei, lo stalliere, non aveva mai avuto figli ma aveva visto crescere l’onorevole Akihito e le sue sorelle. Akari lo vide spesso assecondare con affetto i voleri della discendenza del daimyo Kitai, con un atteggiamento che andava ben oltre la semplice lealtà di servitore. Trattava anche Kyōka con un fare bonario e paterno, sellando per lui sempre lo stesso cavallo, una giumenta che Kyōka chiamava Coccinella per via del muso spruzzato di bianco.
«Vola leggera. Mi porta dove vorrei essere,» con queste parole, Kyōka confessò sottovoce che, prima che la presenza di Akari conquistasse il benestare ufficiale del daimyo, era spesso sgattaiolato fuori dalla residenza con la complicità dell’anziano Jinbei.
«E perché tanta segretezza?», indagò Akari. Kyōka si fece evasivo come suo solito:
«Guardarmi intorno mi aiuta a rinnovare l’ispirazione. Sapete che noia stare sempre rinchiusi nella residenza? Ma al nobile Kitai non potrei certo dirlo. E ora è primavera, la stagione migliore per queste cose. D’estate fa troppo caldo».
«Mh,» commentò dubbioso Akari. Kyōka faceva sempre quel genere di discorsi, tendeva a spiegare tutto in funzione della propria musica, come se al mondo non esistesse nient’altro.
Ma una mattina di ritorno da quelle uscite, arrivarono alla residenza per trovare l’onorevole Akihito già sveglio. Il signor Jinbei, al fianco del giovane signore, teneva gli occhi bassi in un atteggiamento remissivo. Akari sentì distintamente il sospiro afflitto che Kyōka si lasciò sfuggire poco prima di raggiungere i due uomini nel cortile.
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