Akihito era su tutte le furie. La sua espressione contratta rimase a labbra serrate mentre Kyōka volteggiava giù dalla sella, ma quando il musicista gli si rivolse per affrontarlo, tutta la rabbia del giovane si riversò direttamente su Akari.
«Chi ti ha dato il permesso di portarlo fuori dalla residenza?».
«Il Maestro lo ha richiesto espressamente,» ribatté Akari, senza l’ombra di un’esitazione. «Con il benestare di vostro padre».
«Kyōka non esce mai di qui senza una scorta!».
Costretto a fronteggiare Akihito, Akari non ebbe difficoltà a capire la situazione. Kyōka usciva di nascosto per non irritarlo.
«Ha una guardia del corpo, ora, non gli serve più una scorta. Maestro Kyōka non la gradisce, in ogni caso,» si prese la libertà di contraddirlo.
Akari aveva passato troppi anni a ignorare il volere delle autorità perché il tono delle sue parole potesse suonare rispettoso. Kyōka gli rivolse un’occhiata di stupore, con un tocco di ben nascosto allarme – e al suo fianco lo sguardo di Akihito era arroventato:
«Ed è lui a pagarvi, o la mia famiglia?».
«È vostro padre a pagarmi,» Akari bruciò la protesta in un soffio. «E non vedo perché dovrebbe essere contrario alla mia condotta. Siete stato voi a insistere perché fossi posto al servizio di Maestro Kyōka. Ora obbedisco ai suoi ordini, e se non lo gradite, siete libero di congedarmi».
Per un attimo, fu come aver a che fare con Hikaru, in tutta la sua testardaggine e il suo orgoglio. In qualsiasi altro contesto, una risposta come quella gli sarebbe costata cara: destituito, indotto a pagare quella lesa maestà con la sua stessa vita. Ma, nonostante l’alterazione del momento, era chiaro che Akihito lo temesse – ad Akari bastò guardarlo in volto, senza il minimo accenno di sfrontatezza, perché l’altro abbassasse immediatamente la testa.
«Onorevole Akihito,» Kyōka si avvicinò al suo benefattore, mellifluo. «Non siate in collera. Non volevo scomodare gli uomini di vostro padre per un mio capriccio».
Akihito lasciò che le parole del musicista provassero a lenire la superficie del suo orgoglio. Quando fece per andarsene, non era ancora riuscito a fronteggiare il cipiglio di Akari.
«Ne parlerò a mio padre,» promise.
«Mio signore…,» con voce tremante, l’anziano Jimbei trattenne il giovane ancora qualche istante. Si prostrò ai suoi piedi, con il capo chino, «Avrei dovuto impormi e non sellare i cavalli. Se avessi saputo che la cosa vi dispiaceva tanto, io…»
«Taci!». Akihito si scrollò di dosso le sue mani anziane prima di sparire all’interno della residenza.
«Yasha, buona,» Akari richiamò l’amica quando la sentì ringhiare sommessamente. Aiutò il signor Jinbei a risollevarsi e lo assistette in silenzio nel legare i cavalli al giogo, anche se l’anziano signore si muoveva lentamente, il volto prosciugato di vitalità.
«Come ti ho detto… l’onorevole Akihito esagera sempre,» Kyōka disse verso Akari, con tono di rassegnazione. «Non si lasci ferire da questo genere di comportamenti, signor Jinbei».
Lo stalliere non rispose e si avviò barcollante verso Coccinella che scuoteva la coda per scacciare gli insetti.
«Akihito è ancora giovane e impulsivo». Il daimyo sospirò, più tardi nella giornata, quando Kyōka gli chiese udienza per offrire le proprie scuse in merito all’accaduto. «E un po’ troppo permaloso, quando lo si ferisce nell’orgoglio. Ci siamo passati tutti. Il matrimonio lo aiuterà ad assumersi le proprie responsabilità, e a quel punto, a poco a poco, tutto maturerà come dovrebbe». Il nobile Kitai concesse a Kyōka un sorriso. «Nel frattempo, come ho già detto, non ho nulla in contrario a lasciarti uscire senza una scorta. Sto pagando una guardia del corpo per un motivo ben preciso, d’altronde».
«Sono grato che comprendiate, mio signore,» Kyōka gli rivolse un inchino, curvandosi mentre sedeva composto sui talloni. Akari lo imitò, anche se con un gesto molto più sbrigativo.
Il giorno dopo, Akari fu svegliato dall’abbaiare urgente di Yasha. La raggiunse nel cortile, dove servitori e samurai si affollavano nei dintorni delle stalle, in un brusio continuo e concitato.
Il signor Jinbei era stato trovato disteso supino su di un mucchio di fieno, una mano stretta e immobilizzata nel gesto di afferrare le vesti all’altezza del cuore. Coccinella era seduta al suo fianco, con una brutta bruciatura a forma di ferro di cavallo sulla coscia. Il cerusico che venne a esaminare lo stalliere definì l'avvenuto un violento infarto. Il cuore dell’anziano doveva aver ceduto mentre ferrava la giumenta, ferendola a causa dell’improvviso malore. L’attrezzo ormai freddo fu trovato a poca distanza, abbandonato in mezzo alla stalla. Prima di ritirarsi, Akari guardò in volto l’anziano stalliere, il guscio pietrificato che aveva accolto il suo spirito: Jinbei conservava un’espressione sorpresa, come se l'aspetto della morte lo avesse colto alla sprovvista.
Quando il ronin raggiunse Kyōka nelle sue stanze, lo trovò seduto a gambe incrociate sul tatami. Non aveva ancora toccato le ciotole della colazione. Gli lesse in volto che fosse già al corrente dell’accaduto.
«Suonerò per lui,» lo sentì mormorare.
Si attenne a quel proposito fino a quando il corpo dello stalliere non fu cremato. Anche se faceva ogni cosa con quei suoi modi singolari da perfetto intrattenitore, e affrontava ogni giorno con apparente superficialità, la sua musica parlò per lui per tutto il periodo che seguì la morte del signor Jinbei: di frustrazione, rimpianto e una sottile impotenza.
Di notte, più di una volta Akari sorprese Yasha appostata all’entrata della stalla in cui Jinbei aveva lavorato e in cui era morto, dove tutto sembrava essere tornato alla normalità. L’akita fissava l’interno della capanna con le orecchie all’insù e il muso teso, come quando puntava qualcosa che avrebbe voluto Akari tenesse sotto controllo. Ma quando il ronin andava a controllare da vicino, con Yasha che lo guardava dal basso in una muta aspettativa, puntualmente non trovava nulla.
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Quando Kyōka suonava, l’intera residenza ammutoliva per ascoltarlo. Non importava che i suoi fossero solo esercizi confusi, o dei tentativi di mettere insieme una nuova melodia: l’unico movimento in quello spazio di vita e natura con il fiato sospeso erano le note che Kyōka faceva vibrare sul suo shamisen. Riuscivano a raggiungere ogni angolo dell’edificio, sospinte dal vento, attraverso le sue porte scorrevoli aperte. E la cosa che Akari trovava forse più incredibile, in quella strana atmosfera di serenità diffusa, fu che più di una volta gli capitò di rilassarsi. La musica di Kyōka riusciva a calmarlo, perfino a farlo addormentare, lui che negli anni aveva sviluppato il sonno leggero dei latitanti. E la cosa lo turbava. Era una sensazione che somigliava fin troppo ai sintomi di un incantesimo: Kyōka lo aveva reso diffidente sin dal momento in cui si erano incontrati, e più i giorni passavano e più Akari sentiva di non essersi sbagliato. Gli mancavano solo le prove reali.
«Devo dirvelo, Akari,» aveva riso una volta Kyōka, cogliendolo sul fatto. «In quanto a rimanere vigile, talvolta lasciate notevolmente a desiderare».
«Sono qui per proteggervi dai demoni,» gli aveva fatto notare Akari. «Ma mi sembra quasi d’essere pagato per non far nulla».
«Ve lo avevo detto,» aveva ammesso Kyōka, sornione. «Ma gradirei che vi sforzaste di rimanere sveglio. O potrebbe iniziare a girar voce che la mia guardia del corpo trovi la mia musica noiosa. A quel punto rischieremmo di perdere il nostro lavoro, entrambi».
«La vostra musica non è noiosa.»
Era stata una dichiarazione di sospetto mascherata da complimento, ma Kyōka aveva chinato il capo in segno di gratitudine, e Akari si rese conto di poter distinguere facilmente quali dei vari sorrisi che l’altro gli aveva rivolto quella sera fossero stati impostati, e quali sinceri.
Altre volte, invece, ascoltare la musica di Kyōka significava fare fatica a prendere sonno di notte. Il musicista gli chiedeva di sedere al suo fianco mentre si esercitava, e in quei momenti provava a trovare un seguito a La Ricerca.
Erano momenti di tenerezza infinita e dolore straziante, e Akari li sopportava con lo stoicismo rassegnato dell’accettazione. Sentiva ogni cosa, la rabbia cieca verso il daimyo che aveva condotto la sua famiglia alla distruzione, il desiderio incontrollabile di trovare vendetta verso i Demoni che avevano raso al suolo Kanzawa, la disperazione di quando aveva scoperto la propria inabilità spirituale. Non sapeva quando esattamente avesse iniziato ad accettare che la composizione di quel brano fosse un vero e proprio tentativo di Kyōka di impiantare dell’arte nella sua vita da samurai fallito. Ma a un tratto Kyōka si spazientiva, si interrompeva bruscamente pizzicando la corda sbagliata. Metteva via lo shamisen senza essere riuscito a fare progressi significativi.
«Pensavate sarebbe stato più semplice?» Gli domandò una sera Akari, con l’accenno di un sorriso sarcastico a piegargli le labbra. Una sottile consolazione lo rassicurava che in fin dei conti non fosse così semplice leggergli dentro, dunque. E la sua osservazione rese Kyōka ancora più insoddisfatto:
«Mi sembra di capire che la melodia possa proseguire in una certa maniera, ma il suono nella mia testa svanisce prima che possa toccare correttamente le corde. Qualcosa è sempre fuori posto, come se mi sfuggissero dei particolari».
«Non ho intenzione di scusarmene.»
«Non è colpa vostra,» Kyōka prese a massaggiarsi le tempie, con il capo chino. «È come se il seguito si rifiutasse di prendere posto nella sequenza. Come se non volesse che lo suonassi».
«È davvero così che funziona?» Ad Akari sembravano solo elucubrazioni senza il minimo senso, ma si sforzava di provare a capire.
«È come ho detto. La musica si compone da sola, io sono solo il mezzo tramite cui essa si manifesta. Riesco a raggiungere alcune note, ma altre… Se la musica è ritrosa e non vuole nascere, io non posso fare niente».
Akari non aggiunse altro. Interrogare Kyōka nel tentativo di scoprire il suo segreto non sembrava portare mai a risultati significativi.
Più tardi, quello stesso giorno, l’onorevole Akihito si presentò sull’uscio semiaperto della stanza di Kyōka con il volto contratto e gli occhi arrossati. Chiese di entrare con voce tremante, e quando gli fu concesso sedette sui talloni di fronte a entrambi, volgendo ad Akari un cenno del capo. Quest’ultimo non lo ricambiò, senza proferir parola.
«Sono venuto a scusarmi per il mio comportamento di qualche giorno fa…,» Akihito chinò la testa in direzione di Kyōka.
Kyōka si prostrò fino a toccare la fronte sul tatami:
«Non c’è nulla di cui dobbiate scusarvi, onorevole Akihito».
Kyōka sapeva sempre manipolare il mondo in maniera che il prossimo non si sentisse in difficoltà. E in quel caso in particolare, Akihito riconquistò una parte del proprio coraggio – il decoro del musicista gli aveva permesso di non vivere il proprio gesto di modestia come un’umiliazione. Frugò nelle profonde maniche del kimono e ne estrasse una piccola scatola laccata: la offrì a Kyōka senza aggiungere altro.
L’interno rivelò uno spillone per capelli. Aveva delle piccole gocce di giada incastonate tra volute floreali dorate. Gli occhi di Kyōka brillarono di piacere:
«Onorevole Akihito, non dovevate,» prese la nuova aggiunta alla sua collezione tra pollice e indice e la affondò con un movimento esperto nel nodo color pece che legava sulla nuca. Dopo che il suo gesto ebbe colorato il volto del giovane signore di soddisfazione, Kyōka azzardò:
«Mi chiedevo se potessi permettermi di avanzare un’altra richiesta.»
«Quello che vuoi,» rispose Akihito, quasi supplichevole.
«Verreste con me e Akari, una mattina? A vedere l’alba prima che la primavera finisca.» Di fronte alla reazione sorpresa del suo patrono, l’espressione di Kyōka si addolcì. «Al signor Jinbei avrebbe fatto piacere sellare un cavallo anche per voi».
Akihito impallidì e accettò l’invito. Ad Akari parve di scorgere una colpevolezza sconosciuta nel modo in cui il sangue gli defluì dal volto.
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