Gli occhi bianchi della nobile Chieko scrutavano ogni cosa con saggia e implacabile intensità. Avanzava senza bisogno di un bastone, compiva ogni gesto in autonomia.
Il giorno in cui gli aveva posto per la prima volta il suo tormentoso quesito senza risoluzione, la nobile Chieko aveva toccato il viso di Kyōka e lo aveva scrutato nel profondo. Kyōka si era sentito soppesato come uno strumento benedetto per compiere un esorcismo. Si era ritratto da quel tocco come da un ferro arroventato.
Da sotto le ciglia, Chieko pareva osservare il mondo con una consapevolezza superiore – non importava con quanta attenzione si provasse a nasconderle qualcosa: lei riusciva a vedere anche ciò che un paio d’occhi vispi e giovani faticavano a distinguere. E fu con la consapevolezza che lo sguardo di Chieko sarebbe stato ancora più carico di aspettative che, infine, Kyōka si decise ad accettare il suo invito.
Lei lo accolse nella piccola stanza per la cerimonia del tè. La nobile sensitiva compì i gesti rituali con accuratezza, senza che la rallentasse la minima esitazione. Seduti l’uno di fronte all’altra, vegliati da un’opera ikebana al centro del tokonoma di legno, condivisero la bevanda in silenzio, e quando Kyōka ebbe bevuto e ringraziato, completando correttamente la propria parte della cerimonia, la donna tornò a fissarlo con quella sua inquietante insistenza.
«Che ne è dei fuochi fatui sulla neve?», gli chiese, senza preamboli.
«Non ho ancora una risposta, nobile Chieko», fu la risposta, netta.
«Eppure hai ascoltato i resoconti di Hajime, non è vero? Oltre i confini di questa regione, il paese è in preda al caos».
«Così mi è stato detto,» replicò Kyōka.
La donna corrugò la fronte, turbata:
«Non puoi continuare a stare qui rinchiuso. Barricato a Setsukyo come se il resto del mondo non ti riguardasse».
«Nobile Chieko,» Kyōka teneva gli occhi bassi, umilmente. «Capisco le vostre preoccupazioni. Ma non so davvero cosa possa fare io per aiutarvi. Sono solo un artista di strada che non sa combinare altro aldilà della propria musica».
«Perché ti rifiuti di guardare in faccia la realtà, ragazzo?», la voce della donna si era fatta imperiosa. Quando Kyōka si decise ad affrontare il suo sguardo, da lei emanava l’energia straordinaria degli esorcisti dell’Onmyōdō.
Lei aveva creduto nelle presunte capacità spirituali di Kyōka sin dal loro primo incontro. Lo aveva definito il più grande talento che le fosse capitato di incontrare nella sua lunga carriera di esorcista. Lo aveva invitato più di una volta a diventare suo discepolo, a dedicarsi al compito ingrato di ripulire il mondo degli umani dalla sozzura provocata dalla guerra, proprio in quegli anni disperati in cui esorcisti e cacciatori di demoni non bastavano. Ma Kyōka non si era lasciato persuadere.
«Potresti placarli, so che potresti farlo, se solo volessi!», continuò accorata la donna. «Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Fino a quando la guerra civile non finirà, siamo tenuti a fare la nostra parte, lo capisci? E potresti perfino riuscire a raggiungere il mondo degli spiriti…»
Kyōka ebbe un sussulto:
«Per quale motivo dovrei raggiungere il mondo degli Spiriti?».
«Perché è lì che tutto ha avuto inizio. Ed è lì che tutto stagna, si accumula, cresce in attesa di poterci sommergere, mentre noi facciamo di tutto per non annegare».
Le parole della nobile Chieko si avvolsero attorno alla gola di Kyōka e strinsero. Nelle immagini richiamate da quelle parole si nascondeva un’ombra, un gocciolare continuo e inesorabile di nevischio che rintoccando sulla pietra umida, nel corso degli anni, costruiva ponti di ghiaccio tra cielo e terra. Un mormorio, un richiamo. Kyōka chiuse gli occhi e ricacciò quella voce con più difficoltà del previsto.
«Penso che vi sbagliate,» balbettò alla fine, chinando il capo.
«Assisterai alla cerimonia di purificazione estiva?», lo incalzò la donna. «Concedimi solo questo, prova almeno a…»
« Non posso essere chi voi vorreste. Vi prego di perdonare la mia inadeguatezza».
«Kyōka».
Il richiamo della nobile Chieko, a quel punto, non ammetteva ulteriore ritrosia. I suoi occhi lo scrutavano, per la prima volta del tutto spalancati, lattiginosi.
«Kyōka, dimmi la verità. Sai che loro sono qui ora, non è vero?».
Il giovane inspirò profondamente e per un momento desiderò essere cieco, cieco per davvero, poter battere le palpebre e ritrovare di fronte a sé solo il buio. Ma quando lo fece, loro erano lì.
Alle spalle della nobile Chieko e in tutta la stanza, ombre. Erano donne bellissime, altre traballavano sulle schiene ricurve, sugli arti invecchiati. Altre ancora non sembravano umane, ammassi di membra contorte e irriconoscibili che ondeggiavano come vele riempite a tratti dal vento. In estate diventavano più indistinti, più inumani: per quanto lui si sforzasse di concentrarsi su altro, di distogliere lo sguardo e fingere che non esistessero o che fossero esseri umani vivi, lo seguivano in ogni istante e non sparivano mai. Spettri che aveva sempre visto, quando il resto delle persone non poteva, sin da quando era stato un bambino.
«Sono qui,» confermò con un fil di voce.
«Cosa stanno facendo?».
Kyōka li guardò ancora per un momento, incerto. Poi rispose:
«Aspettano».
Chieko emise un sospiro rattristato.
Che ne è dei fuochi fatui sulla neve?
Aspettavano che lui trovasse la risposta.
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Quando la nobile Chieko raggiunse il tempio Kamidori, a nord di Setsukyo, per condurre la tradizionale cerimonia di purificazione delle anime con Asuka, era la prima notte sacra dell’O-bon.
Era un dovere e un azzardo compiere tali celebrazioni in un momento tanto delicato, perché nella bolla di pace che proteggeva la città dall’influsso degli spiriti maligni qualsiasi piccolo errore avrebbe potuto far infuriare le anime dei morti. Temendo di diventare la causa dell’errore scatenante, Kyōka si isolò alla magione, deciso a non prendere parte alle celebrazioni.
«Se vuoi partecipare al rituale, sei libero di farlo,» mormorò verso Akari, quando vide che il ronin sembrava trattenersi dal protestare.
«Tu non hai nessuno per cui pregare?», fu il commento scontroso dell’altro. Kyōka scosse il capo:
«Nessuno che ascolterebbe.» Il pensiero di Kyōka volò dolorosamente a sua madre, in un misto di nostalgia, sofferenza e paura. E proprio mentre cercava di ricacciare via i ricordi legati a lei, quelli più dolci e quelli che avrebbe voluto dimenticare per sempre, Akari ben pensò di ignorare le sue parole:
«Lo farò io al posto tuo».
Senza fare troppe cerimonie, Akari lo lasciò da solo, allontanandosi con Yasha.
Kyōka immaginò la scena così come l’aveva vista tante volte nella sua infanzia. Il santuario si sarebbe colorato della luce delle lanterne rosse e si sarebbe riempito dei suoni tradizionali dell’orchestra cerimoniale, tra i grandi bracieri accesi. Attorno alla nobile Chieko che intonava i sutra, sacerdotesse in abiti bianchi e rossi si sarebbero mosse caute in una danza lenta, sincopata.
Anni prima, il fuoco aveva illuminato il volto di suo padre, la sua espressione fredda e austera: non lo aveva mai sentito intonare una preghiera per l’anima di sua madre. Questa volta, Kyōka immaginò l’espressione di Akari in attesa come durante un vero e proprio esorcismo. Avrebbe fissato il vuoto, febbrilmente, in attesa ancora una volta che qualcosa potesse manifestarsi, parlargli, mettere fine alla sua ricerca. Avrebbe pregato per la madre di Kyōka, del tutto incurante che quelle parole si sarebbero estinte nel fumo dei bracieri.
Al tempo stesso gli spiriti sarebbero rimasti silenziosi, entità invisibili e inquiete, avrebbero percorso le strade della città senza che nessuno potesse vederli, sordi e del tutto incuranti degli sforzi del santuario di rendere loro omaggio. Non bastava più a farli riposare in pace. Avrebbero continuato a vagare, in attesa della prossima esibizione musicale di Kyōka. E tra loro Asami, tenendo per mano il proprio piccolo, avrebbe scosso il capo prima di allontanarsi, lanciandogli un’ultima occhiata di freddo rimprovero.
L’unica grande assente in quella parata macabra di anime non trapassate, come sempre, sarebbe stata sua madre.
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