Anche dopo che la nobile Chieko si fu ritirata nel santuario Kamidori e le foglie degli aceri si furono tinte di rosso dopo la fine dell’estate, Akari continuò a compiere il proprio dovere accanto al musicista senza riuscire a verificare i propri sospetti sul suo conto. Ogni segnale che potesse mettere in allerta il suo istinto di cacciatore veniva subito smentito. Bastava un semplice sbuffo irritato del musicista perché i suoi atteggiamenti che sfioravano il misticismo degli esorcisti sprofondassero nuovamente in un’elegante umanità puerile.
Per rendere ancora più difficile l’instancabile indagine di Akari, Kyōka non si faceva problemi a rifuggire qualsiasi occasione che favorisse la conversazione. Quando gli pareva che la sua guardia del corpo gli tenesse eccessivamente il fiato sul collo, gli bastava agitare le dita per invocare il diritto alla solitudine.
«Ho bisogno di suonare,» disse una mattina con il tono categorico di un capriccio. « Puoi unirti agli altri gatti nel cortile».
Akari aveva smesso di stupirsi quando Kyōka accennava a informazioni di cui non avrebbe dovuto essere al corrente, per cui il riferimento velato ai Gatti non gli fece battere ciglio:
«Vi porterò un topo morto come trofeo quando avrete finito, allora,» ribatté, chiedendosi che cosa avrebbero detto i suoi maestri tra i Gatti se avessero sentito cosa quel ragazzino arrogante avesse da dire sul loro conto.
Quando poi Kyōka gli concesse nuovamente l’onore della propria presenza, accompagnato da Yasha, guardò Akari con gli occhi viola pieni di aspettativa:
«E allora, il mio trofeo?».
Quando l’altro si faceva strafottente come in quell’occasione, Akari fingeva di non sentire.
«Pensavo mi avreste sollevato dal mio incarico,» Akari gli ricordò mentre sedevano nel cortile in prossimità di un laghetto dove sguazzava un esercito multicolore di carpe ornamentali. Kyōka continuò i propri esercizi allo shamisen senza fare una piega:
«Ci ho pensato, a dire il vero,» lo informò, con un tono fin troppo melodioso. «Ma non l’ho fatto. D’altronde perché cacciare l’impavido salvatore di Hajime?».
«Intendete usarmi come copertura, dunque,» constatò Akari. Kyōka gli rivolse un’occhiata a cui tenne testa con uno sforzo di volontà.
«Devo ricordarvi che ho una composizione da finire?» cinguettò Kyōka, affettato.
« Limitarsi a osservarmi e respingermi non vi aiuterà certo a trovare il finale della vostra maledetta composizione,» gli fece notare Akari, ben consapevole di quanto stesse tirando la corda tra di loro.
Kyōka socchiuse gli occhi, offeso. Insultare la sua musica gli faceva arricciare la bocca in un broncio, un modo per annunciare la volontà di chiudere ogni contatto per il resto della serata. E così faceva.
«Ad ogni modo non avrei dovuto insistere tanto in merito alla signorina Asami. Mi dispiace per la vostra perdita,» aggiunse Akari prima di decidere di non introdurre mai più l’argomento. Ricevette da Kyōka un perdono distratto, e in seguito il silenzio preannunciato. Ma negli anni trascorsi nelle foreste a caccia di fantasmi, Akari aveva imparato l’importanza della pazienza, soprattutto con le creature più infide e pericolose. E dunque si ritrasse da quei battibecchi futili, limitandosi a osservare e attendere.
In quell’autunno di musica lunatica, la residenza si preparava ad accogliere la novella sposa di Akihito. Il padre cercava di istruirlo sui prossimi doveri di marito ed erede, ma il giovane non se ne interessava affatto: all’interno di quell’atmosfera generale d’impazienza per il matrimonio, quando Kyōka chinava di lato la testa nel parlare, Akihito nell’ascoltarlo faceva altrettanto. Gravitava attorno al musicista, che d’altro canto era risbocciato come un germoglio ritardatario. Il lento e pigro artista sopravvissuto alla stagione calda aveva ritrovato la sua naturale grazia ammaliante, e con una prepotenza mascherata di moralità, Akihito era abilissimo nell’ostacolare gli incontri di Kyōka con Hajime o con le dame di corte.
«Maestro Kyōka non ha bisogno di voi mentre è con me. Lasciateci soli,» diceva Akihito volgendosi ad Akari, poco prima di chiudere con forza le porte scorrevoli della stanza dove si intrattenevano e da cui voleva escluderlo. Akari obbediva, accontentandosi di rilevare nel tono del giovane quel miscuglio di rabbia e rispetto che gli assicurava di non aver perso del tutto la propria autorità di cacciatore.
Quando Kyōka veniva finalmente congedato, emergeva dalla stanza con un sorriso vacuo.
«Vi monopolizza,» osservò Akari una sera.
«Se l’onorevole Akihito gradisce la mia compagnia sarò sempre ben lieto di accontentarlo, nei limiti delle mie possibilità,» rispose Kyōka. Quella specifica finale lasciò Akari sottilmente consapevole del fatto che con Akihito, il musicista avesse ritenuto necessario delineare dei confini di qualche tipo. Le impronte violacee di cinque polpastrelli fluttuavano sulla pelle diafana di Kyōka, attorno al suo polso, come a confermare un presentimento nefasto.
«Dovrei occuparmi di chi vi fa del male,» aggiunse il samurai, osservando quelle macchie prima che Kyōka si affrettasse a nasconderle nelle maniche del kimono. «Anche quando non si tratta di demoni».
Kyōka gli rivolse un sorriso quasi intenerito:
«Avete un grande istinto protettivo. Anche nei confronti di chi non meriterebbe esserne oggetto, ritengo».
Con la bocca contratta in una smorfia amara, come se qualcuno avesse appena messo a nudo una sua debolezza di carattere, Akari non aggiunse altro.
E così la vita prese a ripetersi sempre uguale a sé stessa fino alla notte di luna piena in cui le porte della residenza si aprirono per accogliere la giovane sposa. Era una fanciulla un po’ in carne, dal viso rotondo, curva e timida nel pesante kimono da sposa. Quando sorrideva, nascondendo i denti con la manica, sulla guancia destra le si manifestava una fossetta da bambina che Akari trovava graziosa ma che il giovane sposo non parve gradire. Infatti si limitò a chinarsi in un saluto, allampanato e freddo.
Quella notte stessa, l’intrattenimento fornito da Kyōka, mentre la famiglia riunita pasteggiava in onore degli sposi, fu travolgente. Bastarono le prime note sul koto a spostare tutta l’attenzione dei presenti dalla coppia di novelli sposi alla elegante figura china sulle corde.
Akari ascoltò, immobile, e mentre la melodia cresceva, si ritrovò sbalzato indietro negli anni. Nello spazio delle palpebre abbassate vide Mei e il giorno in cui anni prima l’aveva salutata al fianco di un Ryuunosuke in lacrime, con la certezza che non l’avrebbero più avuta tra di loro, a casa Nishida. La musica di Kyōka disegnò le linee del suo kimono, quei tessuti che loro madre aveva ricamato a mano e che avevano rappresentato parte della sua dote. Rivide il suo volto dipinto e la sua bellezza accentuata dal rosso sulle labbra. Ricordò di averle preso la mano, con un’attenzione infantile e affettuosa, come a chiederle di non andare. Rivide la dolcezza con cui lei gli aveva carezzato la guancia, prima di voltarsi e attraversare l’ingresso, diretta alla casa del marito.
La melodia crebbe, e le note di tenue familiarità si tramutarono in un inseguimento, raccontando una storia che parlava d’amore tradotto in azioni, in sacrificio, di perseveranza in coraggio. Akari rivide il lutto di vedova di Mei trasformarsi nella devozione che l’aveva spinta a vendicare l’uccisione del marito. E tutto culminava nell’abbraccio, continuo e stretto, di una famiglia che era rimasta unita, fino alla fine, nonostante le difficoltà e gli inciampi.
Una melodia di speranza e di buon augurio, che Kyōka aveva composto negli ultimi mesi, e di cui Akari aveva ascoltato solo spezzoni sparsi, senza mai poterne godere per intero. Mentre i Kitai apprezzavano quella musica così appropriata all’evento, Akari sentì gli occhi farsi lucidi. Indignato e fiero. A quel punto, come una ventata di calore e speranza, seppe che non stava sbagliando, e che Kyōka incarnava davvero ciò che lui stava cercando: perché come La Ricerca si era nutrita di lui, quella nuova storia si era nutrita di Mei. E l’unico a poter raccontare le vicende legate al matrimonio di sua sorella era Akari – o i sussurri di Mei stessa, suggeriti a un esorcista nelle parole impalpabili di un fantasma.
«La tua musica è sempre meravigliosa,» mormorò chinandosi verso Kyōka, in un misto di sarcasmo e sincerità, mentre il musicista si preparava all’esibizione seguente. Non seppe perché si sentì in diritto di far cadere qualsiasi appellativo o formalità nel linguaggio, parlandogli con la familiarità che avrebbe riservato a conoscenti di lunga data. Il giovane si voltò a guardarlo, indispettito; ma lo scambio di occhiate che seguì gli fece storcere la bocca in un sorriso sghembo:
«Dalle migliori fonti d’ispirazione, mastro cacciatore,» sospirò verso il ronin. E quando Kyōka riprese a suonare, Akari tornò al proprio posto, le tempie travolte dal pompare del sangue. Nella platea degli ospiti, Akihito spiccava, livido, fissandolo senza una traccia di deferenza negli occhi sottili.
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La notte che seguì il matrimonio, Akari fu svegliato dal basso ringhiare di Yasha, acquattata aldilà della finestra chiusa, nel cortile. Si mise seduto sul futon, i suoi sensi di Gatto si infiammarono con un momento di ritardo e fu sbalzato sul tatami, schiacciato da una forza invisibile. Distese di riflesso la mano verso le spade al proprio fianco, ma furono scalciate via dall’aggressore. All’esterno, Yasha iniziò ad abbaiare, a grattare con le zampe contro la parete di legno.
Dimenandosi furiosamente, Akari sentì i polmoni svuotarsi d’aria e le ossa scricchiolare – lottava, e per quanto si sforzasse di colpire chi lo schiacciava, continuava a trovare solo buio, aria densa. Nel riverbero lattiginoso colorato dalla luna iniziò a intravedere i lineamenti distorti di un viso.
Non è umano, realizzò, eppure non aveva percepito nulla, neppure la leggera vibrazione nell’aria che preannunciava il manifestarsi dei demoni. Fu certo che non lo avrebbe lasciato andare fino a quando non gli avesse fatto esplodere il cuore. Emise un grugnito feroce e la porta della stanza si spalancò di botto. La pressione sul corpo di Akari si allentò il tanto necessario a permettergli di distendersi, impugnare e sollevare la spada. Sfoderata, la lama fendette la sagoma argentata che incombeva su Akari: lo spettro, distratto e rivolto all’ingresso della stanza, si dissolse.
Affannando, Akari ripiombò a terra, una mano premuta forte contro il petto che doleva e si infuocava d’ossigeno. Kyōka era in piedi sulla soglia, scalzo nel kimono bianco che usava per dormire. Gli occhi viola, spalancati, riflettevano l’argento della luna. Raggiunse Akari, chinandosi accanto a lui con le mani tese, tremante.
«Stai bene?», domandò, a bassa voce.
«Sì», tossì Akari. Era una bugia. Muoversi gli era insopportabile, una tortura a ogni sussulto del petto.
Si guardarono in silenzio, ben consapevoli di aver appena condiviso un evento che non poteva in alcun modo essere frainteso. Ancora una volta, lo spettro aveva allentato la presa solo dopo aver visto Kyōka.
Non passò molto prima che l’abbaiare insistente di Yasha svegliasse la residenza. Hajime accorse con alcune guardie, a spada sguainata, e così fece Asuka, con dei talismani tra le dita. Le loro espressioni gemelle si fecero ancora più gravi quando videro le condizioni di Akari.
«Sono stato colto di sorpresa,» si scusò Akari, roco.
«È stato un demone?», continuò Hajime, allarmato. Akari era dubbioso. Un demone, uno spettro… le circostanze di quanto era avvenuto non rientravano in nessuno schema avesse sperimentato negli anni dell’addestramento. Fu Asuka a parlare per lui:
«Non era un demone. O ne sentirei la malevolenza residua».
«Uno spettro, allora?», tentò ancora Hajime. Anche Asuka vacillò prima di dare una risposta:
«Sembra tutto…appannato,» confessò la ragazza. «Non riesco a decifrare la spiritualità di questo posto». Nonostante stesse studiando per diventare esorcista, sembrava in difficoltà almeno quanto Akari. Era la prima volta che un attacco del genere lo avesse visto come bersaglio principale, sin da quando era a Setsukyo. Lanciò un’occhiata a Kyōka, che pareva paralizzato al suo fianco. Forse pensava che a quel punto Akari avrebbe smascherato la verità. È stato maestro Kyōka a scacciarlo, quindi forse dovremmo chiedere a lui. Cosa sta succedendo in questa residenza? Maestro, risponda!
Ma il ronin, dolorante, non aggiunse altro.
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