«I due ragazzi si intrattenevano spesso con il musicista, non è vero? Come la povera Asami, l’anno scorso…».
«Che fine terribile, così improvvisa…».
«Sembrava quasi che non fosse mai successa, non è vero? La disgrazia di Asami…».
Akari intercettò quel tipo di voci quasi per caso, tra i servitori della residenza. Nessuno sembrava pronto a parlarne con chiarezza, facevano gesti scaramantici per allontanare la sfortuna, ma di colpo le due tragedie, a distanza di dodici mesi, sembravano collegate. E nel mezzo, ammantato da un’aura di inavvicinabilità, si trovava Kyōka: ora che l’inverno era tornato, il fantasma degli eventi dell’anno prima riemerse dall’oblio e rivestì il musicista di un abito inquietante.
La grazia di Kyōka restava immutata, irradiava da lui e sembrava farsi più luminosa quando lo circondava il paesaggio innevato. Se avessero domandato ad Akari ciò che ne pensava, avrebbe risposto che il musicista non era mai stato così affascinante. Ma al tempo stesso notò a poco a poco il cambiamento, la nota stridente che rendeva la sua musica stonata, la sua compagnia d’artista quasi sgradevole. Da mezzo di intrattenimento e meraviglia, la sua musica si era trasformata in una maledizione: le richieste di intrattenimento da parte del daimyo si fecero più rare, mentre Kyōka si faceva sempre più riservato e solitario, e la sua ispirazione artistica si congelava.
«È sempre tutto così sbilanciato con te. Ti amano troppo o ti detestano senza un vero motivo,» osservò cupo Akari.
Kyōka serrò la mascella, arcuando le sopracciglia in un moto carico di sarcasmo:
«Davvero non ne hanno motivo? Forse le mie melodie hanno cessato di sussurrare loro quanto fossi di gradevole compagnia».
Chiunque ascolti la sua musica, finirà ucciso. Akari lo aveva sentito mormorare più di una volta.
«Ciò che dicono sulla tua musica è una menzogna,» affermò quando si accorse che anche Kyōka stava pensando alla stessa cosa.
«È proprio qui che ti sbagli, Akari,» lo corresse Kyōka. «La mia musica si nutre di morte. Questa è l’unica verità.»
Sembrava davvero convinto, in un meccanismo di associazioni che ad Akari sfuggiva, d’essere responsabile di quelle morti. Il ronin, dal canto suo, sapeva di dover fare il possibile per proteggere la sua musica.
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«Kyōka,» il daimyo Kitai lo convocò una sera, studiandolo con un cipiglio che il musicista non si era mai sentito rivolgere direttamente. «Mi chiedo se tu non mi abbia nascosto qualcosa, fin dall’inizio».
Solo ciò che non era necessario sapeste, Eccellenza. Kyōka abbassò il capo con umile remissività, come aveva fatto il giorno del loro incontro – il daimyo lo aveva raccolto dalla strada quando all’artista non era rimasto altro che la propria musica, uno shamisen, un crimine che aveva abbandonato irrisolto in terre lontane e la certezza struggente di voler essere umano.
«Sei coinvolto nella morte di Hajime e dell’ancella di mia nuora?». Il daimyo dava finalmente voce ai sospetti dell’intera residenza.
«Mio signore,» rispose Kyōka con tono fintamente stentoreo. «Consideravo Itō un mio caro amico, e la giovane Ichiyo una fanciulla adorabile. Ho pianto la loro morte quanto la nobile Asuka e più di chiunque altro».
Era la verità. Kyōka soffriva. Aveva pensato di poter proteggere i due giovani, tenendoli lontani dalla guerra, dai conflitti di cui Hajime aveva parlato dopo i viaggi con la nobile Chieko. Aveva suonato per loro, convinto che per un po’ di tempo avrebbe potuto contagiarli con il proprio distaccato disinteresse per il caos. Non era servito a nulla.
Il daimyo sospirò, scuotendo il capo:
«Sai, ragazzo,» riprese. «Non ho mai dubitato di te finora. Mai una volta, sin da quando ti ho accolto».
«Vi sarò per sempre grato di questo».
«Ma per la prima volta vedo una connessione…qualcosa di…». Il daimyo esitò. «Qualcosa di disturbante nel modo in cui sembri sempre coinvolto negli incidenti che sconvolgono la mia casa».
Kyōka annuì, senza dire nulla.
« Devo pensare alla sicurezza della mia famiglia, della mia città… Sembra che tu attiri l’ira degli spiriti su di noi, ragazzo».
Kyōka inspirò, lentamente.
«Non so per quanto tempo ancora potrai rimanere a Setsukyo,» concluse il daimyo. «Posso offrirti una scorta, e Akari potrà seguirti, se lo vorrete entrambi. Forse Chieko potrebbe aiutarti a scoprire cosa ti perseguiti…»
Kyōka ebbe un fremito. Trattato come un malato, un artefatto maledetto – era ciò che meritava, ma non per questo faceva meno male. Si prostrò al cospetto del proprio benefattore con un sorriso.
«Qualsiasi sarà la sua decisione,» annunciò, «vi sarò eternamente grato per ciò che avete fatto per me. Per aver gradito la mia arte fino a oggi».
Era bastato così poco a cambiare l’atteggiamento di chi lo aveva trattato come un figlio per più di tre anni: smettere di sforzarsi, abbassare la maschera che fino a quel momento aveva ingannato tutti, che aveva spinto l’intera residenza a tollerare la sua presenza di buon grado. Smettere di suonare con innocenza artefatta. Lasciare che il freddo rigido dell’inverno rendesse i suoi lineamenti fin troppo ipnotici, che il riflesso della neve lo illuminasse per quello che era veramente.
Camminare lungo i corridoi della residenza significava assorbire paura. Un timore profondo che Kyōka sentiva emergere dagli sguardi di chi incrociava, dai bisbigli che lo seguivano quando girava l’angolo. La residenza aveva paura di lui, della sua musica, e Kyōka sentiva il proprio animo spaccarsi lentamente in due. Una parte si affliggeva per le perdite che stava subendo, di affetti e di fiducia. Nell’altra ribolliva un fuoco che si beava di quella nuova condizione, temuto, escluso, e al tempo stesso desiderato nel suo essere irraggiungibile, maledetto. Perché sebbene la maggioranza lo evitasse, un’eccezione eclatante continuava a perseguitarlo.
«Kyōka,» l’onorevole Akihito mormorò il suo nome con un’inflessione supplichevole, un tono che non si addiceva affatto al rango di entrambi. «Suona per me, stasera, ti imploro».
Gli stringeva le mani con tanto impeto da far male, cercando con la forza un contatto fisico che Kyōka continuava a negargli.
«La mia arte non è più la benvenuta nella residenza, mio signore,» mormorò Kyōka, tetro.
«La tua musica sarà sempre benvenuta per me,» Akihito rimarcò il concetto come se volesse apporvi il proprio sigillo, definire Kyōka suo una volta per tutte. «Non smetterò mai di volerti, mai».
Kyōka scosse il capo, desolato, fermo. Da quando il ragazzo era sposato, la giovane consorte dell’erede aveva preso a guardare Kyōka con l’astio di una moglie che sospetti dei tradimenti del marito.
«Dovreste smettere di pensare a me, nobile Akihito».
«Perché dovrei? Io non ti respingo. Non credo a ciò che dice di te la gente.»
«Non posso darvi ciò che vorreste. Dovete lasciarmi andare».
Akihito ancora una volta gli afferrò il polso, questa volta in modo brusco:
«Ti proteggerò, da tutti, da tutto».
La dolcezza dolorosa in quelle parole fece rabbrividire Kyōka, smosse qualcosa nel profondo, come un battito di vita improvviso sotto una spessa lastra ghiacciata. Dall’interno lo tentava un sibilo, un fuoco freddo che suggeriva a Kyōka di annuire, sorridere, lasciare che tutto andasse come voleva Akihito.
Accettalo e lui vorrà solo che tu gli faccia del male, suggeriva, componendo note che Kyōka non avrebbe mai più voluto sentire nell’eco del proprio respiro. Lo riportavano indietro, a quando nel Paese di Mezzo si era dimostrato fin troppo simile a sua madre perché suo padre potesse tollerarlo.
«Vostro padre mi manderà via presto,» riprese Kyōka, ritraendosi. « Per voi è la cosa migliore».
Akihito, come ogni volta, non rispose. Se ne andava sempre con l’orgoglio ferito di un animale feroce, ostinato a non rinunciare al premio su cui sentiva fin troppo intenso il proprio odore.
Quella stessa notte, Kyōka cadde in preda a uno dei suoi incubi ricorrenti.
Era il pomeriggio invernale in cui Asami era morta. L’insistenza delle figlie del daimyo a cui aveva ceduto con riluttanza, quando le più giovani lo avevano convinto a suonare il suo flauto. Il flauto nero e argento, dono di sua madre in quella giornata d’inverno di così tanti anni prima, un cimelio proibito che aveva sempre trovato il modo di ingannarlo, di farsi trovare nei luoghi meno opportuni, di imporsi a Kyōka anche quando fin troppe volte aveva pensato di liberarsene. Ricordava l’entusiasmo delle ragazze in attesa di uno stupendo spettacolo, l’istinto sopito dentro di sé lusingato, impaziente. Aveva posizionato le dita sulle sette aperture, aveva portato le sue labbra sul ryūteki. Aveva suonato la prima nota, morbida, melanconica.
Seguendo il sentiero tracciata a mezz’aria dal proprio fiato contro le fessure di bambù, la civetta aveva planato in direzione del cortile dove erano riuniti, disegnando una linea precisa, emettendo un grido di saette.
Kyōka aveva osservato la scena come in una bolla sommersa, silenzio racchiuso dall’eco del flauto. Le giovani Kitai e le loro dame di compagnia erano balzate in piedi per fuggire, tranne Asami, rallentata dalla recente gravidanza interrotta. Il corpo dell’uccello si era gonfiato, si era acceso di fiamme. Aveva afferrato Asami con gli artigli aguzzi: aveva schizzato la neve di rosso quando il becco adunco le era penetrato nel cranio. E nella musica che aveva suonato quel giorno, impressa indelebile nella sua memoria, Kyōka aveva riconosciuto il sussurro puerile di un bambino farsi un tutt’uno con lo stridio insopportabile della civetta. Grazie a te riavrò con me la mia mamma, lo aveva ringraziato, mentre Asami moriva.
Kyōka si svegliò di scatto, ingoiando un grido, e un palmo fermo lo trattenne contro il futon con rude delicatezza. Percepiva Akari nel buio, che ultimamente non si fidava a lasciarlo dormire da solo. Il soffio tiepido dal naso di Yasha lo raggiunse poco dopo, e la sua guancia si inumidì di caute lappate. Akari, avvolto in un solo strato di stoffa nel freddo gelido di quella serata buia, non sembrava turbato.
«Perché non hai paura di me?» Kyōka domandò, roco. Gli occhi sottili di Akari lo scrutavano con un’intensità priva di esitazione.
«Perché anche se dovessi rivelarti pericoloso, saprei come gestire la situazione».
«Come puoi esserne certo?» mormorò ancora Kyōka, come se dalle labbra dell’altro potesse pervenire una verità confortante a cui lui non riusciva ad accedere.
«Se la tua musica aizzasse i demoni, tutta Setsukyo sarebbe già stata rasa al suolo. Avrebbero dovuto accorrere in massa. Per venire da te.»
Kyōka gli afferrò il polso. Lo strinse con forza, senza riuscire a trovare un modo opportuno di controbattere.
«E quelli che vi hanno ferito?» domandò.
«Io sto bene,» glissò Akari, evitando l’argomento delle ossa rotte, come ormai faceva da vari giorni.
«Ma sei l’unico».
«La morte di Hajime e Ichiyo non è stata colpa tua,» disse Akari.
Kyōka chiuse gli occhi. Avrebbe davvero voluto potergli dare ragione.
Cosa ne è dei fuochi fatui nella neve? Kyōka non sapeva ancora dare una risposta. La sua musica attirava la morte, in inverno con maggiore forza: era questa l’unica verità ineluttabile. Sentì che Yasha gli leccava la mano destra, gli colpiva il polso ed il pugno contratto. Riconobbe la consistenza liscia del fluato contro il palmo, senza sapere quando lo avesse sfilato dalla custodia per afferrarlo.
Aldilà di Akari, Asami e suo figlio assistevano alla scena come sagome di uno spettacolo d’ombre. Ancora, in silenzio, aspettavano.
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