Il cavallo nero che si stava avvicinando, tuttavia, era senza cavaliere. Bardato dalla testa ai piedi, con una gualdrappa decorata in filato d'oro, la criniera acconciata in tante treccioline, la sella sulla schiena e le redini attaccate alla capezza, ma senza nessuno a sedersi sopra quel dorso ampio.
Mi precipitai ad afferrare le redini per trattenere l'animale, pensando a quanto potesse valere un cavallo del genere e se papà me lo avrebbe lasciato tenere (nel caso non si fosse ritrovato il proprietario, ovviamente).
La bestia scalpitò, ma si fermò immediatamente e mi guardò con un grande occhio scuro, quasi liquido nella sua lucentezza. C'era una bellezza nobile nella curva del muso e del collo, nell'arco descritto dalle froge dilatate, e di colpo pensai che non avevo mai visto un cavallo così bello.
Seguendo il cartello indicativo, mi recai alle stalle dietro la taverna, dove normalmente i viaggiatori lasciavano i loro destrieri. Il cavallo nero mi seguì, ma non avrei usato il termine “docilmente”, perché continuava a guardarsi intorno con curiosità e sembrava aver deciso consciamente che riposarsi nella stalla potesse essere una buona idea.
Lo sistemai nel piccolo box fra quello in cui i mezzorchi avevano stipato i loro cavalli tutti insieme e quello in cui c'era il minuto e grazioso cavallo bianco della nostra cuoca.
Io non avevo un cavallo, papà continuava a ripetermi che erano animali bisognosi di troppe cure e che avevo già un gatto. Vanamente avevo cercato di fargli notare che i gatti non possono portarti lontano sul loro dorso: lui aveva risposto, incrollabile, che gli unici animali che avrebbero potuto vivere sotto il nostro tetto erano i gatti. Lui ne aveva dodici. Io uno solo: si chiamava Dracula, era nero come la notte, e in quel momento era in piedi su una mucchio di balle di fieno.
Lo salutai grattandogli il mento e solleticandolo su tutta la schiena. Per tutta risposta, lui iniziò a fare le fusa a volume altissimo e a rotolarsi tutto finché il suo pelo non si riempì di pezzettini di fieno.
Mi misi a chiamarlo con una serie di nomignoli affettuosi, mentre gli passavo la mano sul pancino peloso. Come capita piuttosto spesso con i gatti, Dracula era il nome “ufficiale” che era stato scelto per lui, ma in pratica io e papà lo chiamavamo con una pletora di altre parole, tra cui Brilky, Mucio, Neruzzo, Spruscio, Monello, Dentinone e Toh-Toh. Probabilmente quel gatto non aveva la benché minima idea di quale fosse il suo nome.
«Adesso devo andare, Mucio» Gli dissi, poggiando la punta dell'indice sul suo nasino nero «Tu fai il bravo, sì? E li prendi i topini? Li prendi?»
«Mao» rispose lui, facendo ondeggiare solo la punta della coda.
Gli posai un bacio leggero sulla testolina, fra le orecchie, ed entrai dalla porta di servizio sul retro. Papà era nel suo ufficio, intento a gestire le prenotazioni. Se ne stava seduto su una poltrona, con un taccuino in mano e la tavoletta magica PRENOT in grembo. Quest'ultima continuava a sputargli informazioni in faccia sottoforma di lettere di luce azzurrognola e fumo, velocissima.
Ci vuole una grande abilità, e molta esperienza, per usare senza intoppi quel vecchio modello di tavoletta, che otto volte su dieci rivelava le parole in ordine casuale e facendo apparire le scritte nell'aria per uno o due secondi. Ad esempio, se un cliente alla stazione magica più vicina spedisce la frase “Sarò lì alle sette e mezza, vorrei una stanza per due e una torta”, la vecchia tavoletta PRENOT di papà potrebbe sputare fuori “Una stanza per torta e per lì, sarò le sette e mezza torta” ed è l'arduo compito del capotaverna quello di sbrogliare la matassa e capire che diavolo volesse dire. Un giorno, nel futuro, sarei dovuta esserne capace anch'io e il solo pensiero mi faceva rabbrividire.
Aspettai con calma che papà finisse di scrivere tre prenotazioni, dopodiché la tavoletta si spense e io mi avvicinai.
«Ehi, pa'»
«Ciao, Belarda» mi rispose lui, mettendo da parte l'apparecchiatura, sul tavolino basso e lungo di lato alla poltrona «Sei in pausa?»
«Non è arrivato nessun altro cliente dopo quattro mezzorchi» risposi «E Nihal se la sta cavando bene da sola. Sono andata a vedere se stavano arrivando altri clienti, perché ho sentito gli zoccoli di un cavallo, ma indovina?»
«Era un fantasma» disse lui, mortalmente serio
«No, papà! Era un cavallo»
«Beh, non mi sembra così straordinario» aggrottò le sopracciglia «Hai sentito un cavallo ed era un cavallo, no?»
«Sì! Ma non aveva nessun cavaliere sopra».
D'improvviso, la sua faccia tradì una strana preoccupazione
«Nessun cavaliere» disse, sollecito
«Già»
«E aveva una... aveva le bardature... ed era nero? Tutto nero?»
«Sì!» annuii «Possiamo tenerlo? Papà? E poi... come lo conosci?»
«Ho ricevuto una prenotazione tre giorni fa. Pensavo di averla interpretata male, perché non aveva molto senso ma... sembra proprio che invece abbia capito giusto. Ci hanno mandato un cavallo come ospite, starà da noi un mese e mezzo. Gli ho preparato una camera»
«Un cavallo come ospite?» risi piano «Non è possibile!»
«E invece sì. E dovrebbe avere i soldi nascosti sotto la sella. Andiamo a controllare».
Papà afferrò la tavoletta PRENOT sotto l'ascella (non poteva permettersi di lasciarla mai, non sapeva quando i messaggi gli sarebbero arrivati, perciò se la portava anche in bagno) e insieme ci recammo alle stalle.
Allentai le cinghie e frugai sotto la sella del maestoso destriero e toccai un involto ruvido e piatto, che tirai fuori. Si trattava di un panno di canapa grezza, con sopra stampato in nero un sole con all'interno la mezzaluna, il simbolo della valuta più utilizzata di Cactoria.
«I soldi» Disse papà, poi mi invitò con un gesto ad aprire l'involto.
All'interno del panno c'erano oltre quaranta soli, le banconote di taglio più grosso, fatte di lana di capracanta e ricamate in filo d'oro.
«Caspita, chi cavolo può permettersi di pagare così tanto per fare alloggiare un cavallo?» Domandai, strabuzzando gli occhi «Con questi soldi io potrei comprarmi quattro cavalli da battaglia, altrochè!»
«Qualcuno ricco» disse papà, con un sogghigno.
Studiai la sua faccia per un istante. Conoscevo bene quel sogghigno: era quello di quando mi aveva permesso di prendere il mio primo gatto, o di quando finalmente aveva deciso che ero grande abbastanza da iniziare a lavorare alla taverna, o di quando mi aveva sorpresa portandomi in vacanza una settimana al parco delle meraviglie di Ulukhana. Insomma, aveva la faccia di qualcuno che stava per dirmi una cosa che mi avrebbe fatto immenso piacere, ma che mi teneva sulle spine perché non voleva dirmela proprio subito subito.
Lì su due piedi credetti che stesse per darmi come paghetta extra i quaranta soli che avevo trovato sotto la sella del cavallo. Con quaranta soli avrei potuto comprarmi quasi qualunque cosa desiderassi, dall'intera collezione di libri di avventura del nano Gimli e della sua spalla comica Legolas (io ne avevo già quattro, ma l'intera collana contava duecentodue volumi) a una tigre da battaglia, ma prima che potessi davvero covarne la speranza papà me li prese dalle mani e se li infilò in tasca.
Allora capii che la sorpresa non erano i soldi, ma chi ce li aveva mandati.
«È il cavallo dell'imperatrice?» Domandai, spalancando gli occhi «Lei verrà qui, non è vero? Fra un mese e... non mi ricordo quanto tempo deve alloggiare il cavallo»
«Un mese e mezzo» rispose papà «Ma no, non è il cavallo dell'imperatrice»
«È di qualcuno che conosco?» indagai
«Penso proprio di sì» lui annuì e il sogghigno soddisfatto si allargò ancora
«Ma questa persona conosce me?»
«No, direi proprio di no»
«Hmmm...» mi strofinai il mento e poi guardai il cavallo, alla ricerca di un indizio che mi rivelasse il nome del suo proprietario.
Quello poteva anche essere un destriero da battaglia, era alto e possente e aveva quel non so che di pericoloso e intelligente. Non sapevo se era un maschio o una femmina, la gualdrappa che gli ricopriva il dorso scendeva fino a metà delle lunghe gambe massicce e nascondeva buona parte dell'anatomia.
«Questa persona...» Provai ancora a indovinare «... È mai stata nella nostra taverna? Abbiamo il suo ritratto, dentro?»
«No. Proprio no» papà scosse la testa
«È... è... il governatore di Hamilia?»
«Chi diavolo è questo tizio?»
«Letteralmente il governatore di Hamilia» allargai le braccia «Andiamo, papà. Hamilia è una città e ha un governatore»
«E a noi perché dovrebbe importare?»
«Perché ha talmente tanti soldi che mi lascerebbe una mancia incredibile! E si dice che viaggi sempre con una scorta di venti ballerini attraenti e poco vestiti con corone e bracciali d'oro che mentre ballano tintinnano una melodia».
Papà fece una smorfia, poi si pettinò i baffetti con il dito, come faceva a volte quando era imbarazzato
«Non conosco questo governatore. E comunque... comunque non è lui».
Papà è sempre stato, fin da quando ne ho memoria, terribilmente a disagio quando si parla di ragazzi attraenti. O quando dei ragazzi attraenti sono presenti nella stanza. O quando vede il disegno di un ragazzo attraente.
Trassi la conclusione che il nostro misterioso ospite non sarebbe stato un ragazzo attraente né avrebbe avuto con sé, almeno in teoria, dei ragazzi attraenti.
«È una donna?» Domandai «Una fata?»
«Purtroppo per me, no. Una fortuna per te...».
Ok, forse era un ragazzo attraente, ma a me non ne veniva in mente nessuno che fosse anche ricco o che conoscessi senza che lui conoscesse a sua volta me.
«Ok, d'accordo, mi arrendo» Concessi, sbuffando «Chi diavolo è?»
«Non vuoi indovinare?»
«Non sono capace»
«Ti do un indizio?»
«Va bene. Uno solo»
«Il cavallo è nero»
«Questo lo so» risposi, piccata, ma poi mi bloccai.
Il cavallo era nero. Apparteneva a una persona che conoscevo, ma lui non conosceva me. Una persona ricca. Una persona che mi avrebbe fatto piacere vedere.
«Non ci credo...» Mormorai
«Allora, l'hai capito?» fece papà, con aria fintamente noncurante.
Certo che l'avevo capito. Annuii, senza riuscire a dire niente per un po'. Papà vide illuminarsi la tavoletta PRENOT e si preparò per prendere appunti, ma quella si spense da sola immediatamente: falso allarme. Dopo un paio di minuti, finalmente riuscii a domandare:
«E che diavolo ci viene a fare qui? E perché ha mandato il suo cavallo?»
«Viaggerà lungo la Strada Azzurra per chissà quale diabolica ragione» papà si strinse nelle spalle «Arrivato a metà avrà bisogno di una cavalcatura fresca»
«E come ha fatto il cavallo ad arrivare prima di lui? A precederlo di un mese?»
«E io che ne so? Chiediglielo quando verrà qui» lui sogghignò, ma stavolta in modo diverso, più provocatorio.
Sapeva benissimo che non sarei riuscita a rivolgere la parola al nostro non-più-tanto-misterioso ospite. O meglio, rimaneva misterioso comunque, ma almeno adesso sapevo come si chiamava.
«Non ci credo...» Ripetei «Sei proprio sicuro, papà?»
«Quasi del tutto»
«E quando pensavi di dirmelo?»
«Quando sarebbe arrivato. Doveva essere una sorpresa, ma visto che dovrai prenderti cura del suo cavallo per un mese, beh, è capitato».
Di solito, papà non era un tipo che sogghignava, o almeno ne aveva ben poche occasioni. Le sue battute erano leggere e rare, anche se non era un tipo serio. Era piuttosto timido, ed era uno dei motivi per cui non serviva personalmente ai tavoli. Ma oggi sembrava cambiato e quasi euforico quanto lo sarei stata io non appena mi fossi ripresa dalla sorpresa: questo perché, al contrario di quanto cercava di dare a vedere, anche lui era un fan sfegatato del nostro misterioso ospite.
«Sarà qui fra un mese!» Esclamai, poggiandomi le mani sulle guance
«E mezzo. E tu non riesci nemmeno a pronunciare il suo nome» scherzò papà «Non l'ho sentito saltare fuori neanche una volta nella nostra conversazione»
«Neanche tu l'hai detto!» lo puntai con il dito, arrossendo.
Anche lui arrossì, ma ero pronta a scommettere che era le sue guance erano di una sfumatura molto meno intensa della mia.
«Beh, è perché stavo cercando di fartelo indovinare... il nome» Quasi balbettò «Sei tu che non riesci a dirlo. Io sono capacissimo!»
«Anche io sono capacissima» ribattei, cercando di suonare calma
«E dillo»
«Undertaker».
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