Con la residenza ancora scossa dal lutto e senza il peso delle armi a ostacolarlo, fu facile calarsi oltre la recinzione della magione. La mancata ufficializzazione del suo congedo non lo aveva ancora reso una presenza sospetta, così i servitori che lo videro lo ignorarono.
Dalla stanza di Kyōka filtrava il bagliore danzante di una candela, attraverso le porte di carta di riso. Sul porticato, una sola guardia era seduta a gambe incrociate, con le spade distese al fianco. Akari gli si accostò senza far rumore e si avventò su di lui con la precisione di un assassino, gli immobilizzò il braccio destro perché non potesse raggiungere le armi, poi lo torse e con tutto il proprio peso spinse l’uomo disteso contro il pavimento. Gli tolse il fiato, soffocando la sua voce contro l’incavo del gomito: la guardia si dimenò nella sua morsa, battendo la mano libera e i piedi sulle assi di legno per far rumore. Akari lo lasciò andare solo quando fu certo che avesse perso i sensi.
A quel punto le porte della stanza scorsero bruscamente lungo i binari di legno: Akari sollevò lo sguardo e incrociò quello di Kyōka, immobile tra gli shoji. Si fissarono per un momento, poi Kyōka tornò dentro senza far rumore, lasciando intatta l’apertura tra le porte. Akari lo seguì, trascinando con sé il corpo esanime della guardia e quando il ronin fu dentro, il musicista si premurò di richiudere silenziosamente l’entrata.
«Devi andartene,» bisbigliò subito dopo, prendendo a misurare i tatami a passo agitato.
«L’ho già fatto. Due volte. E sono tornato».
«Ma non c’è più nulla da cercare qui». L’espressione di Kyōka, nel voltarsi a guardare il compagno, era duro. «È tutto finito. Ho sbagliato sin dall’inizio a chiederti di restare. La Ricerca rimarrà incompiuta, io non posso aiutarti. Non perdere altro tempo».
«Dimmi cosa è successo,» Akari lo interruppe prima che potesse aggiungere altro. Kyōka si immobilizzò in mezzo alla stanza, guardò lentamente in una direzione non precisata, non rispose.
«So che non sei colpevole,» tagliò corto Akari. « Non lo avresti mai fatto. Non tu».
«Invece ti sbagli di grosso,» mormorò Kyōka. «Quello che è successo qui è tutta colpa mia».
«Non dire sciocchezze,» sbottò Akari, impaziente. «Hai protetto questo posto. Sei stato tu! Hai tenuto la guerra e i demoni lontani da Setsukyo con la tua musica».
Kyōka scosse lentamente il capo:
«Il nobile Akihito mi ha chiesto di aiutarlo.» Kyōka tremò. « Te ne sarai accorto… io ho un effetto sulle persone,» ammise, la voce ridotta a un mormorio, passandosi una mano sul volto. «Non… non è una cosa che posso controllare. Le attiro a me, riesco a rendere loro la mia presenza gradita».
«Ed è un male?»
«Lo è. Lo è quando l’attrazione diventa malsana…» Kyōka esitò. «La mia presenza ha indotto il nobile Akihito a compiere azioni terribili».
Quelle parole fecero schioccare al loro posto alcune delle caselle disordinate nell’indovinello che era Kyōka. Akari lasciò che quella confessione si assestasse tra di loro e i sospetti nei confronti delle vicende assunsero un nuovo senso agli occhi del samurai.
Si domandò come la verità avesse potuto sfuggirgli tanto a lungo: aveva sentito di fenomeni simili, di esseri ancora in vita che rilasciavano momentaneamente lo spirito per vendicarsi o uccidere, spinti da passioni irrisolte, da emozioni troppo violente. Li chiamavano Ikiryō. Spiriti vivi.
«E in che modo sarebbe colpa tua?» Akari digrignò i denti, riprendendo la parola. «Non sei stato tu a mettere quello spillone in mano al ragazzo. Le azioni che ha compiuto sono una sua responsabilità».
«Mi ha chiesto di aiutarlo.» Kyōka continuava a ignorare ciò che l’altro diceva. «E ora come ora conosco solo un modo per liberarlo dalla maledizione che lo affligge».
La stanza cadde in un silenzio gravido di tensione. Akari inspirò con forza. Riconobbe quella sensazione con la stessa certezza con cui avrebbe riconosciuto il proprio riflesso in una pozza d’acqua. Riconobbe il tono di rassegnazione con cui un condannato a morte o un suicida parlasse dei propri ultimi attimi di vita, delle proprie motivazioni. E qualcosa in Akari scattò, bruscamente, come il rilascio di una freccia tenuta a lungo in bilico contro la corda dell’arco. Non avrebbe lasciato che accadesse di nuovo.
« Non ti ucciderai,» sancì. «Non mi interessa cosa tu pensi sia necessario al nobile Akihito».
«È l’unico modo,» continuò Kyōka. «Se scappassi, verrebbe a cercarmi. Questa storia terribile non avrà fine, continuerà a perseguitarlo come un’ossessione fino a quando avrò fiato in corpo. A meno che non vi ponga fine io, una volta per tutte».
«Ti dimenticherà».
«È una condanna».
«E se il tuo sacrificio non servisse?» La voce di Akari aveva preso a fremere appena. «Voi tutti pensate che la morte ponga fine a ogni cosa, ma non è così. La gente che rimane indietro continua a soffrire! Pensi svaniresti dai suoi pensieri? Non accadrà mai!».
A quel punto Kyōka indietreggiò fino a raggiungere una delle pareti, scivolò fino al pavimento, sedendo scomposto in un angolo.
«E se invece stessi solo sbagliando il modo in cui affronti questo tuo dono?» incalzò Akari. «Non ti rendi conto che potresti davvero essere d’aiuto alla gente, se lo volessi?».
«Non so come fare».
«E quindi vuoi morire?».
Kyōka affondò una mano tra i capelli sciolti, incerto, poi balbettò:
«La nobile Chieko parlava di raggiungere il mondo degli spiriti…che una volta lì avrei potuto…»
«Se servirà ad aiutarti, ti porterò da lei,» intervenne subito Akari. Gli afferrò un braccio, provò a scuoterlo. «Allora vuoi morire o vuoi vivere?»
Kyōka portò entrambe le mani al volto. In quegli istanti si fece vulnerabile, e allo sguardo di Akari si espose in uno stato in cui quest’ultimo non lo aveva mai visto: perso, non nel suo mondo fantastico, ma nel mondo reale.
Alla fine, nascondendosi, Kyōka cedette:
«Voglio vivere.»
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Decisero di raggiungere la nobile Chieko al santuario Kamidori. Kyōka raccolse lo stretto indispensabile, affermando a mezza voce che sarebbero tornati presto: lasciò indietro il prezioso shamisen e tutti i costosi doni che negli anni Akihito gli aveva dispensato. Quando Akari gli pose tra le mani il corto tantō, Kyōka osservò l’arma come si trattasse di uno strumento proibito.
«Tienilo per difenderti,» gli raccomandò con tono severo. «È l’unico uso che ti permetterò di farne».
Dopo un momento di esitazione, Kyōka lo infilò tra le pieghe dell’obi, sulle reni. Con un movimento inconscio, allo stesso modo legò alla cintura la custodia lucida del flauto di sua madre.
Riuscirono a muoversi senza attirare l’attenzione, attraversando il cortile all’ombra delle mura di cinta. Ma quando Akari si offrì di aiutare Kyōka ad arrampicarsi oltre la recinzione, furono sorpresi da alcune guardie, e fu impossibile sottrarsi al confronto.
«Dove state andando? Il daimyo ha dato ordine che non usciate dalla residenza, Maestro Kyōka,» annunciò una di loro, brusco. «Sono costretto a riaccompagnarvi alle vostre stanze».
L’uomo fece per afferrare il musicista, ma Akari si frappose tra di loro:
«Kyōka deve essere altrove al più presto,» affermò, minaccioso.
«Non andrà da nessuna parte a meno che non sia il daimyo a volerlo».
Kyōka percepì la verità in quelle parole: rivide con un forte senso d’angoscia l’insistenza con cui Akihito si era aggrappato a lui e la difficoltà con cui alla fine lo aveva congedato, raccomandandogli con voce febbrile di aspettarlo e di non allontanarsi.
«Maestro Kyōka è libero di andarsene in qualsiasi momento,» sancì Akari.
«Pensavo foste stato congedato, ronin.» L’uomo lo squadrò con sospetto. «Non siete più il benvenuto a Setsukyo».
Altre guardie abbassarono le lance accorrendo dall’interno della residenza e il cortile si riempì di una tensione palpabile. Impietrito, combattuto tra il desiderio che tutto cessasse e la necessità di trovare delle vere risposte, Kyōka percepì alla perfezione il momento in cui la temperatura invernale attorno a loro sprofondò, pizzicando le sue mani nude con una promessa tentatrice. Potresti liberarti di loro, se solo lo volessi, il richiamo era ovunque, nello scricchiolare del ghiaccio, lungo le grondaie tremanti della residenza, negli anfratti congelati e invisibili. Gli suggeriva di uccidere quegli uomini che conosceva da anni. Nel tentativo di distogliersi da quel richiamo, Kyōka concentrò la propria attenzione su Akari, sulla freddezza con cui pareva pronto a difenderlo ad ogni costo, nonostante fosse disarmato, come un pazzo. Si aggrappò a quella sua determinazione inspiegabile e appoggiandosi a lui riuscì a soffocare il sussurro dell’inverno.
Fu allora che vide apparire gli spettri. Si manifestarono lentamente, avanzarono verso le guardie come sovrapposizioni delle loro stesse ombre. Samurai nelle loro armature incrostate di fango e sangue, donne che nascondevano il volto sfregiato sotto lisce bande di capelli neri, figure dagli arti mutilati, dai colli torti, dalle teste mozzate. Dall’interno della stalla si alzarono i nitriti dei cavalli, e in un bagliore bluastro reso più vivido dal riflesso sulla neve, a Kyōka fu chiaro, in quel preciso istante, che la quiete a Setsukyo era terminata.
Perché le guardie iniziarono a vederli.
«Demoni!» gridavano, osservando per la prima volta i volti di tutte quelle anime che avevano abitato la residenza senza che nessuno ne fosse mai reso conto. Gli uomini nel cortile andarono in panico, provarono a trafiggerli con le lance, incespicarono sui propri stessi passi e sulla neve.
Akari scattò senza perdere un secondo:
«Svelto!» gridò. Kyōka sentì la sua presa attorno al braccio e lo seguì correndo verso la stalla. All’interno, i due trovarono due cavalli già sellati – con il manto bianco e la caviglia guarita, Coccinella scuoteva la criniera, impaziente. Tra gli animali, sorreggendo le redini, Kyōka distinse chiaramente i lineamenti benevoli del signor Jinbei, prima che Akari afferrasse le briglie e gridasse a Kyōka di montare in groppa.
«Kyōka!» sentì la voce disperata di Akihito, dall’ingresso della residenza, prima di voltargli le spalle e sfrecciare via.
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