Tuttavia, io non volevo cedere alla stessa maleducazione.
«Ciao, io sono Belarda» Dissi, presentandomi «Posso stringerti la mano, o nella tua cultura è considerato scortese?».
Il giovane mi guardò e non batté neppure le palpebre, ma i muscoli della sua faccia si irrigidirono e strinse chiaramente i denti.
«Sta soffrendo?» Chiesi ad Oronzo, colpita da quella strana reazione
«Non... non lo so» ammise il guardiano, sorpreso «Ragazzo? Ragazzo? Stai soffrendo?».
Il giovane pallido si alzò in piedi di scatto e scappò fuori dalla stanza con una velocità che non avrei mai potuto immaginare... e che probabilmente non state riuscendo a visualizzare nemmeno voi. Provate a vedere con l'occhio della mente la corsa dell'uomo più rapido che riuscite a immaginare, un corridore velocista che ha polverizzato tutti i record del mondo. Fatto? Ecco, adesso immaginate che quel ragazzo pallido e spettinato sia molto, ma molto più veloce di lui, così tanto in effetti che potreste perdervi i suoi movimenti con un battito delle palpebre. Spaventoso, vero?
Rimasi come paralizzata: non avevo mai visto nessuno scattare così velocemente, eppure avevo incontrato decine e decine di non-umani nei miei sedici anni!
«È veloce» Commentai, sottovoce.
Oronzo scosse la testa, ma non capii bene perché. Voglio dire, non poteva certo negare che il ragazzo fosse più rapido di un cavallo con le chiappe in fiamme! Forse non mi aveva sentito bene, o magari era solo pieno di disappunto per il comportamento rude del fuggitivo.
Mangiai un dolce. Che fame che avevo! Che me ne importava quindi di ragazzi superveloci che scappano? A nessuno sarebbe importato, con quel cibo davanti.
Mangiai e bevvi, senza riuscire a resistere all’impulso di chiudere gli occhi di quando in quando, immaginando di essere a casa mia. I sapori erano troppo familiari, sembrava la cucina di Aria… potevo quasi figurarmela, in piedi accanto a me, con in mano un mattarello, che mi guardava come se fossi una povera bifolca di una razza inferiore, e che ci crediate o no era un ricordo più che ben accetto. La maggior parte degli elfi non ne possono fare a meno, ti guardano così anche se ti vogliono bene.
Immaginai di essere a tavola con papà, ma dovetti smettere all’improvviso perché sentii le lacrime che si accumulavano troppo rapidamente agli angoli delle palpebre. Deglutii un boccone e un singhiozzo e nascosi nel fondo del mio cervello quei pensieri: dovevo trovare un modo per tornare a casa, adesso, non mettermi a piangere.
«Ti sta piacendo?» Domandò Oronzo, con delicatezza, nascondendosi le mani dietro la schiena
«Certamente. È tutto buonissimo, grazie».
Non riuscivo a dire di più. Non conoscevo quell’uomo e provavo una punta d’imbarazzo: di solito ero io ad accogliere gli ospiti, non ad essere accolta.
«Riguardo a quel ragazzo...» Continuò il guardiano «Non so perché sia fuggito, ma probabilmente adesso è troppo lontano per fermarlo, non credi?»
«Credo… credo di sì...»
«Ma così non puoi convincerlo a non svegliare la principessa»
«Lo so. L’ho notato» deglutii «Ma cosa ci posso fare?».
Oronzo sospirò. Aveva chiaramente riposto un po’ di speranza in me, nelle mie capacità di convincere quel ragazzo a non fare sciocchezze, ma sapeva che non era colpa mia se quello era scappato.
«Ti porto dalla tua cavalla» Mi disse, quando finii di mangiare «Così vedrai che sta bene»
«Grazie».
Lo seguii fuori dalla casetta, fino alla stalla, dove la cavalla nera aspettava legata ad un palo, ruminando qualcosa con aria davvero seccata.
«Ciao» Le dissi.
Lei ruotò le orecchie due volte in avanti e due volte indietro, ma non disse nulla. Mi pareva chiaro che non voleva parlare di fronte a quell’uomo sconosciuto.
«È tutto a posto?» Domandò Oronzo, camminando verso di me con le mani dietro la schiena
«Sembra… sembra di sì» dissi.
Non riuscivo a staccare lo sguardo della cavalla, che ora guardava il guardiano come se volesse ucciderlo.
«È davvero un superbo animale» Disse l’uomo, con un sorriso che gli muoveva solo un angolo della bocca «Forse conosco la sua linea di sangue? È famosa?»
«Ehm...».
Che ne sapevo io della linea di sangue di quella cavalla? Non me ne intendevo di allevamento in generale e non avevo la benché minima idea della provenienza di quello specifico equino. Non conoscevo neanche il suo nome.
Lei nitrì, scuotendo la criniera, e batté lo zoccolo sul terreno. Oronzo, che le dava le spalle, si girò a guardarla e io provai un presentimento che più che un presentimento era una certezza a cui non volevo credere.
La cavalla si impennò. Il suo box non era chiuso, le sue redini erano a malapena legate e si sciolsero con lo strattone. Oronzo indietreggiò, allargando le braccia di stupore, ma non scappò perché… beh, lui non sapeva quello che sapevo io. Credeva di avere davanti un cavallo come gli altri, come quelli che non decidono arbitrariamente di attaccare le persone.
«No!» Gridai «Non lo fare! Non lo fare!».
Ma lei lo fece. Travolse il pover’uomo, lo gettò a terra, e lo colpì con una zoccolata alla fronte. Oronzo iniziò ad avere una serie di feroci convulsioni mentre il sangue gli scorreva da un orecchio.
«No! No! Perché? Perché l’hai fatto?» Gridai spaventata, indietreggiando.
Mi sentii una codarda: avrei dovuto soccorrere il guardiano. Ma avete mai fronteggiato un cavallo con intenti omicidi? Non riuscivo fisicamente ad avanzare, ogni fibra del mio essere mi gridava di stare lontana da quella bestia.
«Non è neanche un personaggio secondario, nella nostra storia» Disse la cavalla, con cattiveria «È solo una comparsa inutile. Se fossi la lettrice del libro della nostra vita mi starei annoiando. Ci sta facendo perdere tempo e la sua presenza mi impedisce di parlare»
«Ma devi parlare per forza? E poi perché non puoi parlare… con… lui…?».
Ad ogni parola, la cavalla mi si avvicinava sempre di più, costringendomi a indietreggiare finché non finii con le spalle contro la casetta.
«Non posso parlare con lui, piccola umana idiota, perché altrimenti si ricorderebbe di aver visto un cavallo parlante e lo direbbe alle persone che vogliono farci la pelle. Ci vogliono uccidere, lo capisci o no?» Mi ringhiò contro e, lasciatemelo dire, un cavallo che ringhia (parlando) sembra la cosa più innaturale del mondo.
Annuii per fare capire che avevo compreso, ma non riuscii a dire una parola. Era già un miracolo che non fossi morta anch’io… beh, a dire il vero Oronzo non era morto, si stava solo dibattendo con sguardo vitreo.
«Lo finisco» Disse la cavalla, intercettando il mio sguardo pieno di orrore posato su quel povero corpo in preda alle convulsioni.
Bastò un’altra sola zoccolata, ben assestata alla tempia, per far smettere il guardiano di soffrire per sempre. Lui ci aveva offerto cibo, ospitalità, aiuto. E noi l’avevamo ucciso. Noi. Continuavo a pensare questa parola anche se io non avevo fatto niente.
«Andiamo» Disse la cavalla, sbrigativa «Ruba tutto il cibo che vuoi, poi proseguiamo. Non possiamo fermarci qui»
«Cosa? No!» esclamai
«Perché, cosa te lo impedisce, la tua alta morale?» lei sbuffò e roteò gli occhi
«Sì!»
«Beh, non stai rubando se il padrone è morto. E ora sbrigati, piccola umana, dobbiamo metterci in salvo la pelle».
Entrai di nuovo nella casetta, inorridita e con un senso di ineluttabile aggrovigliato intorno al mio stomaco. Dovevo saccheggiare la casa di un uomo morto? Dicono che c’è una prima volta per tutto, ma questa prima volta l’avrei saltata volentieri.
«Sbrigati!» Mi gridò da fuori la cavalla «O faccio a pezzi questo misero umano e ci portiamo lui come scorta!».
Corsi in dispensa, abbassandomi per entrare da quella porticina bassa e tozza, e mi ritrovai in un ambiente scuro, senza finestre, fresco. Le pareti erano ricoperte di scaffali, ma erano quasi tutti senza cibo… non vuoti, perché c’erano vecchi strumenti di diversi generi, come pinze o piccoli vasi, ma per essere una dispensa c’era davvero poco da mangiare. Solo alcuni degli scaffali più bassi esibivano barattoli di vetro pieni di fagioli precotti con il brodo, una cassettina di mele, pochi sacchettini di noci, due filoncini di pane avvolti in una tovaglietta di lino ingiallita.
Presi tutto quello che potevo, ma mentre tiravo un barattolo saltò fuori un minuscolo ritratto su carta spessa, che planò fino a terra e si infilò sotto una mia scarpa.
Allungai una mano e afferrai il ritratto, poi li sollevai cercando di capirci qualcosa nella semi-oscurità di quel posto. Anche il soggetto del ritratto era scuro, perciò me lo infilai in tasca e uscii portando tutto il cibo che potevo, aspettando di essere fuori per riuscire a capirci qualcosa di più.
«Tutto qui?» Domandò la cavalla, scuotendo la coda
«Non c’era altro» ansimai «E se anche ci fosse stato non… non sarei riuscita a portare tutto in un viaggio solo».
Avevo barattoli sotto le ascelle e che mi spuntavano dalle tasche e entrambe le mani stavano per perdere la pesa sui sacchettini di noci e sulla cassettina di mele nella quale avevo infilato il pane. Posai tutto a terra e presi le bisacce da mulo che pendevano da uno dei box della stalla, cercando di non guardare mai il corpo esanime di Oronzo, per poi cercare di montarle sopra la cavalla. Non ero un’esperta, ma feci il meglio che riuscii, infine infilai tutto il cibo, con grandissima difficoltà, nelle bisacce. Dovetti liberare le mele dalla cassetta e le noci dai sacchetti, ma alla fine quasi non si notava che era stata una novellina a caricare il tutto.
«Sei abbastanza veloce» Mi concesse la cavalla «Ma ti tremano le mani»
«Ho paura» confessai
«Non averne. Su, sali in sella, andiamo»
«Hai ucciso un uomo...»
«L’ho notato»
«Sì, ma...»
«Sali in sella, ragazzina».
Non me lo feci ripetere di nuovo e montai a cavallo. Mentre ci allontanavamo galoppando dalla casetta del custode, mi chiesi se qualcuno avrebbe mai ritrovato il corpo di Oronzo e se avrebbero mai potuto sospettare quello che era accaduto… dopotutto sarebbe potuto sembrare un incidente, non un assassinio. Sarebbe potuto sembrare che quel pover’uomo fosse caduto da cavallo e che il suo animale, per sbaglio, lo avesse calpestato.
Non ci sarebbe stata giustizia, mai, per lui.
Mi si inumidirono di nuovo gli occhi mentre mi chinavo un po’ in avanti sulla sella, assecondando il movimento rapido del galoppo. Non c’era giustizia, a questo mondo? Poi mi ricordai del disegno che avevo in tasca e lo presi, cercando di distrarmi dai pensieri cupi che ronzavano fra le pareti del mio cranio. Alla luce del giorno, sebbene filtrata dai rami scuri della zona del pentimento, si potevano distinguere tre persone ritratte, con un realismo favoloso, più o meno fino alla cintola. La prima persona era Oronzo, in una versione più giovane, con un sorriso educato e le braccia dietro la schiena, che indossava una tunica da elfo verde con disegni argento intorno al collo; la seconda era una donna che aveva chiaramente sangue orchesco nelle sue vene, alta e grossa con la pelle grigio/bruna, che esibiva canini massicci in un ghigno gioioso, una mano su un fianco e l’altra sulla spalla di Oronzo. E poi c’era la terza persona, quella che mi fece venire un groppo in gola.
Era poco più che un ragazzino, con un sorriso a trentadue denti, i capelli pettinati all’indietro e le guance rosee. Avrei riconosciuto dappertutto quegli occhi, ma soprattutto la maglietta che indossava, così vecchia che forse suo nonno l’aveva portata prima di lui, già a quei tempi sporca di olio da cucina. La terza persona del ritratto era mio padre.
«Oronzo lo conosceva» Quasi singhiozzai
«Chi?» domandò la cavalla, senza molto interesse
«Mio papà. Si conoscevano. Non può essere… non può essere una coincidenza, che siamo finiti qui. Era un amico di papà! E tu l’hai ucciso!»
«Ah sì?» il suo tono ancora più annoiato mi fece venire voglia di accoltellarla, ma non avevo un coltello e quindi mi limitai a digrignare i denti.
La cavalla aveva ucciso, senza pietà, un amico di papà.
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